La digital era del mercato discografico: cosa è cambiato per la musica indie?

di Redazione The Freak

La digital era del mercato discografico: cosa è cambiato per la musica indie?

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La digital era del mercato discografico: cosa è cambiato per la musica indie?

La digital era del mercato discografico: cosa è cambiato per la musica indie?

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Il termine digitale è un termine, oggi, molto inflazionato. Eppure, non è impresa semplice darne una definizione chiara, visto che il suo ambito di applicazione è davvero sconfinato. Andando oltre ogni riferimento al termine che ne evochi il mero collegamento con la tecnologia o i dispositivi, “digitale” può però essere letto come sinonimo di cambiamento. Si tratta di una trasformazione inarrestabile – digital transformation – che ha coinvolto e coinvolge persone, processi e attività, al punto da aver generato un’intera economia che ruota intorno a essa. Il digitale, infatti, è ormai presente in qualsiasi prodotto o servizio. La digital economy non ha un’anima esclusivamente virtuale, dal momento che, in molti casi, i business portati avanti oggi grazie alle tecnologie digitali non sono dei business nuovi, bensì attività economiche già esistenti, che grazie al digitale vivono una nuova vita e generano profitti in modo diverso da come fatto fino a quando sono state svolte offline.

Il settore discografico non fa di certo eccezione, essendo stato profondamente trasformato, nel corso degli ultimi dieci anni, dalla digitalizzazione della fruizione musicale. E questo non lo scopriamo di certo oggi. Ma a cosa ha portato la digitalizzazione nel settore discografico? Cosa vuol dire far fronte, per l’industria discografica, a un cambiamento così radicale nel consumo musicale, che è passato in prima battuta dal supporto fisico al download, per poi essere assorbito quasi completamente dallo streaming?

Per rispondere a questa domanda non ci improvviseremo manager discografici, né proveremo a fare delle supposizioni. Piuttosto, questa che leggete, è una riflessione basata su ciò che i manager discografici – quelli che lo fanno di mestiere – mettono in evidenza quando viene loro posta la domanda: “Come si traduce, in termini di gestione dei progetti artistici, la situazione in cui si trova oggi il mercato discografico? Quali sono le strategie di management da adottare in risposta all’evoluzione della fruizione del prodotto musicale? Quali strategie porta ad attuare la fruizione di una musica sempre più liquida?”. Per avere, innanzitutto, le idee più chiare sull’attuale situazione del mercato discografico italiano, e sapere fin da subito, in termini numerici, a cosa si fa riferimento quando si parla di “digital era del mercato discografico”, è forse il caso di riportare i più recenti dati di mercato, derivanti dall’indagine svolta da Deloitte e pubblicatati da FIMI, la Federazione Industria Musicale Italiana.

Nel primo semestre 2019, il mercato discografico italiano ha visto una crescita del 5% rispetto al primo semestre del 2018. Da cosa deriva questa crescita? A cosa è dovuto l’incremento dei ricavi nel settore discografico?

La lettura dei dati ci dice inequivocabilmente che questa crescita è trainata con forza dallo streaming, che oggi rappresenta il 63% di tutti i ricavi dell’industria discografica, ed è cresciuto, rispetto al 2018, del 31,3%, generando introiti per oltre 54 milioni di euro nei primi sei mesi del 2019. Se si considera anche il download, che costituisce 6% degli introiti del settore discografico, ma che è allo stesso tempo in calo del 24,4% rispetto al 2018, il digitale arriva a rappresentare il 73% del mercato italiano. D’altra parte, il fisico risulta in netto calo rispetto all’anno scorso (-25,9%) e rappresenta, oggi, il 27% dei ricavi.

Di digitalizzazione, quindi, si può parlare eccome. Le abitudini di ascolto sono evidentemente cambiate, assestandosi su un modello di consumo gratuito o su abbonamenti dai prezzi accessibili, ma la sostanza è che oggi gli ascoltatori vogliono gustarsi la propria musica preferita quando e dove ne hanno voglia. Senza ombra di dubbio, questa rivoluzione ha rappresentato un’enorme opportunità per gli artisti, soprattutto per gli emergenti. Non sarà un caso l’ascesa e l’affermazione presso il grande pubblico degli artisti che tanto ci piace definire “indie”, e che, soprattutto negli ultimi tre anni, hanno riacceso l’interesse verso un pop italiano che sembrava ormai appannaggio della stagionalità dei talent show televisivi.

Ma facciamo un passo indietro. Che cosa vuol dire “indie”? O meglio, vuol dire qualcosa? Quand’è che ci riferiamo ad un artista e lo definiamo “indie”?

Immagine realizzata da Spotify

Se è vero che fino a prima della rivoluzione digitale che ha investito il settore discografico aveva un senso fare una distinzione tra due circuiti diversi – quello “mainstream”, che passava per le radio e per le tv, vs quello alternativo, che passava prevalentemente per una massiccia attività live – oggi, per via della digitalizzazione, il mercato risulta sostanzialmente livellato. Risultato: si gioca un campionato unico, su un terreno che è lo stesso per tutti. Al tempo stesso, se si considera che la musica “indie” è nata come un movimento, un approccio alla musica che mirava ad essere indipendente dalle major discografiche, non si può non constatare che oggi quasi nessun artista è ormai slegato da dinamiche in cui entrano a far parte le multinazionali del settore discografico e del mercato dei live. Infatti, proprio in virtù della popolarità presso il grande pubblico riscossa da diversi artisti lanciati da etichette indipendenti, le multinazionali hanno iniziato a guardare questi ultimi con sempre maggior interesse.

Appurato che quando si parla di “indie” non si fa certamente riferimento a un genere musicale, va poi puntualizzato che non si tratta nemmeno di un fenomeno recente. Negli ultimi anni, semplicemente, c’è stato un ricambio generazionale, portato da artisti che parlano un linguaggio vicino alla fascia più giovane degli ascoltatori, e agevolato per certi aspetti dall’uso massiccio delle piattaforme di streaming, che alla fine della fiera hanno reso la musica e gli artisti “indie” alla moda. Con ciò non vogliamo mettere in discussione la qualità delle produzioni “indie” degli ultimi anni (anche perché non è su questo che stiamo riflettendo), e anzi, il fermento creativo venutosi a creare non può che essere un’ottima cosa.

Come dicevamo, quasi tutti i progetti discografici che negli ultimi anni hanno riscosso maggior successo hanno visto l’ingresso di economie provenienti proprio dalle grandi multinazionali, sia del settore discografico (con contratti di distribuzione e di licenza), sia del settore dei live, che hanno preso in mano la produzione delle tournée.

E qui torniamo a noi, cioè proviamo a rispondere alla domanda da cui eravamo partiti: “Quali sono le strategie di management da adottare in risposta all’evoluzione della fruizione del prodotto musicale?”.

La strategia condivisa dalla maggior parte dei manager è una visione di lungo periodo, che vede nella crescita graduale dell’artista la chiave per costruire un progetto artistico che sia innanzitutto credibile. In altre parole, l’ingresso di una multinazionale è senza ombra di dubbio utile in termini di risorse economiche utili a realizzare determinate attività, ma non deve tradursi in una perdita di controllo da parte del management sul progetto. Chi conosce il progetto fin dalla sua nascita e ha bene in mente quale direzione prendere deve quindi tenerne in mano le redini, cercando di evitare che gli obiettivi di breve periodo di una multinazionale possano portare un progetto che avrebbe bisogno di consolidarsi nel tempo a fare, per così dire, il passo più lungo della gamba. E per “consolidarsi” si intende la costruzione di un pubblico affezionato e fedele che, auspicabilmente, cresca nel tempo.

Peraltro, essendo oggi abituati ad un ascolto sostanzialmente gratuito, non tutti danno un valore monetario alla musica che ascoltano. Di conseguenza, molte persone trovano impensabile dover pagare il prezzo di un biglietto per assistere a un concerto di un artista del quale magari apprezzano anche molto le canzoni…su Spotify! La conseguenza di questo schema di consumo è che, spesso, ad un ampio numero di ascoltatori e di riproduzioni sulle piattaforme di streaming non corrisponde una altrettanto massiccia di presenze ai live.

D’altra parte, essere visibili e farsi trovare facilmente sulle piattaforme streaming è oggi fondamentale.

Abbiamo visto come l’ascolto di musica avviene oggi prevalentemente tramite questi servizi, e trascurare il posizionamento di una nuova uscita nelle playlist può essere un errore che fa passare un brano inosservato. Non a caso, i rapporti che legano le etichette indipendenti con le multinazionali sono spesso regolati da contratti di distribuzione, fisica, ma soprattutto digitale.

Lo streaming, quindi, è oggi un’arma molto potente da sfruttare nella promozione di un brano. Mentre prima era la radio a decretare o meno il successo di una canzone, oggi è estremamente importante emergere su piattaforme come Spotify, dove l’ascolto è sì spontaneo, nel senso che ognuno cerca ciò che vuole ascoltare in un dato momento, ma è anche guidato dalle playlist ufficiali periodicamente aggiornate dagli editor delle piattaforme stesse.

Questa circostanza, unita alla morte del supporto fisico, ha fatto sì che l’approccio al lancio e alla promozione di un album sia cambiata radicalmente rispetto a quanto non si facesse prima della rivoluzione digitale. L’uscita del disco era allora anticipata dall’uscita di un singolo, con cui si cercava di convincere il pubblico ad acquistare l’album una volta uscito; successivamente, dopo qualche mese dall’uscita dell’album, veniva estratto un nuovo singolo, che serviva per promuovere nuovamente le vendite dell’album, e così via, fino a quando le (tre o quattro) canzoni designate ad essere i singoli di punta (un po’ più belle delle altre tracce) non erano esaurite. Oggi la situazione si è sostanzialmente ribaltata: prima dell’uscita di un album vengono lanciati diversi singoli che servono ad attirare l’attenzione sull’artista, creando, come tanto ci piace dire, hype. Risultato: quando l’album esce, la promozione è già quasi finita, perché nessuno deve essere più convinto al suo acquisto. Anzi, tutti possono ascoltarlo gratuitamente. Quello che si cerca di fare è, semmai, cercare l’appoggio dei media tradizionali, come la radio e la televisione, che servono in qualche modo a istituzionalizzare il lavoro fatto fino a quel momento.

Se da un lato, quindi, l’attenzione si è ulteriormente sbilanciata in termini promozionali sui singoli che precedono l’uscita di un album, dall’altro la curiosità che questi ultimi possono suscitare sulla figura di un nuovo artista impone una certa cura anche per le altre tracce, che non possono essere inserite solo per “fare numero” all’interno del disco, facile com’è ascoltarlo sulle piattaforme streaming.

E questa per noi che amiamo la musica non può che essere una buona notizia, perché al di là dei gusti, dei generi e delle simpatie, è (o perlomeno dovrebbe essere) una garanzia di impegno verso un’offerta artistica di valore da parte di tutti gli artisti, che oggi come non mai, non possono permettersi passi falsi.

di Salvatore Maggio, all rights reserved

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