La Cassazione contro il “saluto fascista”.

di Isabella Inguscio

La Cassazione contro il “saluto fascista”.

di Isabella Inguscio

La Cassazione contro il “saluto fascista”.

di Isabella Inguscio

Siamo arrivati in Cassazione, al terzo grado di giudizio, in merito ad una vicenda fortemente dibattuta e quantomai attuale, nonostante il suo aspetto definibile ironicamente un po’ “retrò“.

Il fatto vede come protagonista Gabriele Leccisi, da sempre militante nella “destra neofascista” milanese e frequentante le associazioni patriottiche e combattentistiche. L’8 Maggio 2013 questi veniva ammesso alla seduta della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su “sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute” – in qualità di rappresentante del Circolo culturale Domenico Leccisi (suo padre) – come osservatore, insieme ad altri militanti di due associazioni di estrema destra che si erano dati appuntamento davanti a Palazzo Marino per protestare contro il piano rom varato dall’amministrazione meneghina.

In occasione della seduta pubblica, avente ad oggetto appunto il cosiddetto “Piano Rom”, il Leccisi eseguiva il “saluto fascista”, anche noto come “saluto romano”, compiendo in tal modo una manifestazione esteriore tipica di un’organizzazione politica con finalità vietate ex art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, firmata a a New York il 7 marzo 1966).

Stando al suddetto articolo:

“(…) è punito con la reclusione da uno a quattro anni: a) chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale; b) chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale.

È vietata ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi scopi di incitare all’odio o alla discriminazione razziale. Chi partecipi ad organizzazioni o associazioni di tal genere, o presti assistenza alla loro attività, è punito per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da uno a cinque anni. Le pene sono aumentate per i capi e i promotori di tali organizzazioni o associazioni”.

Una norma che sembrerebbe, anche agli occhi di uno sguardo inesperto, calzare a pennello rispetto alla vicenda di cui si discute.

Nel processo celebrato a seguito della vicenda, infatti, sia il Tribunale di Milano che la Corte d’Appello, pienamente convergenti, riconoscevano l’integrazione del fatto di reato.

La vicenda criminosa – dalla quale ha preso poi avvio quella giudiziaria in commento – si inseriva in un più ampio contesto: le proteste sviluppatesi a margine delle attività di sgombero di un insediamento Rom, ubicato a Milano, in Viale Ungheria, che avevano creato grandi tensioni sociali nell’ambiente cittadino ed in conseguenza delle quali il Leccisi aveva organizzato una manifestazione di protesta contro il Comune di Milano, accusato dai manifestanti di inerzia.

Frattanto, il Presidente della Commissione sicurezza del Consiglio comunale di Milano, Mirko Mazzali, invitava l’imputato ad assistere alla seduta consiliare, pregandolo, in cambio, di desistere dall’organizzazione della manifestazione.

Nel corso della seduta, quindi, il consigliere comunale Anita Sonego, chiedeva al Presidente informazioni circa la presenza in aula degli organizzatori del corteo, evidenziando che, in caso di esito positivo, questi avrebbero dovuto abbondare l’aula.

A fronte di tale richiesta, Leccisi rispondeva a voca alta «presenti e ne siamo fieri», effettuando il “saluto fascista”, che veniva ripreso dalla giornalista Oriana Liso con il suo telefono cellulare.

In questa cornice, quindi, i fatti delittuosi si sono ritenuti pienamente dimostrati sulla base di riprese audiovisive effettuate e delle testimonianze dei soggetti presenti alla discussione sul “Piano Rom”.

Arriviamo così all’atto finale di questa tormentata vicenda.

Proposto ricorso per Cassazione, la Suprema Corte si pronuncia in senso sfavorevole al Leccisi.

La Cassazione argomenta affermando che «il “saluto fascista” o “saluto romano” costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all’ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dall’art. 2 del decreto-legge n. 122 del 1993, evidenziando che la fattispecie contestata a Leccisi non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva », aggravato in questo caso dal contesto nel quale si concretizzava: una seduta pubblica di particolare risonanza e rilevanza.

Una sentenza dai torni duri e di forte rimprovero che, secondo alcuni, potrebbe collidere con il principio di libera manifestazione del pensiero.

Ma così non è.

La Corte precisa infatti che «il diritto alla libera manifestazione del pensiero finisce dove inizia l’istigazione al razzismo. E questo non rientra tra le opinioni personali».

Come biasimare dunque la durezza dalle Suprema Corte che è chiamata a svolgere il ruolo di “maestra severa” difronte al dilagare di fenomeni sempre più preoccupanti (in quanto riecheggianti i tanto condannati ideali fascisti ed istiganti spesso l’odio razziale) che si ripetono oggi con una inaspettata frequenza. Potremmo riportare molti esempi a riguardo, come quello di alcuni ultrà biancocelesti che srotolano un lungo striscione inneggiante al Duce, a piazza Loreto a Milano, lì dove il fondatore del Partito nazionale fascista venne esposto dopo la morte dai partigiani. E tutto questo alla vigilia del 25 aprile, festa della Liberazione.

O ancora: a Roma la rivolta violenta contro l’assegnazione di una casa popolare ad una famiglia di nomadi proveniente dal campo La Barbuta, aizzata da esponenti di formazioni politiche di estrema destra come CasaPound e Forza Nuova.

Un’atmosfera delicata in cui le tensioni sono palesi ed il rischio che tutto ciò possa sfociare in eventi violenti è tangibile ed evidente.

Frattanto, dunque, la Corte “prende in mano la penna e scrive una nota”, un monito, ricordando a noi tutti, piccoli alunni indisciplinati, che esistono delle regole da rispettare e che l’eventuale reiterazione di loro violazioni porterà “dure punizioni”.

Si possono mai biasimare simili conclusioni? D’altro canto, stando anche all’esito del nostro sondaggio, la Suprema Corte non è l’unica a pensare che il saluto romano rimandi all’ideologia fascista evocando valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza.

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