L’ultimo ballo

di Fabrizio Lucati

L’ultimo ballo

di Fabrizio Lucati
L'ultimo ballo

L’ultimo ballo

di Fabrizio Lucati

L’ultimo ballo l’ho visto in quel giugno del ’98. Giocavo a basket per conto mio.

Vivevo in campagna e mi ero fatto montare un canestro al muro come si vedeva nei film, ovviamente avrei preferito averlo sopra la porta del garage ma, per come era strutturata casa mia, non era fattibile, così mi accontentai di avere quel cerchio di ferro a 305 cm di altezza su un muro a caso. Giocavo con un mio amico indossando le maglie di mio fratello: per lui la maglia bianca a righine blu degli Orlando Magic numero 32 di Shaquille O’Neil, io quella rossa dei Bulls, il numero 23 e la scritta Jordan all’altezza delle spalle. La prima volta che vidi giocare Michael Jordan fu su NBA Action, programma che andava in onda ogni sabato alle 14 su Italia 1, con la voce urlante di Dan Peterson che raccontava le gesta dei giganti dagli Stati Uniti. Era il 1997, l’anno del cosiddetto flu game, quando Jordan giocò e trascinò i suoi Chicago Bulls nonostante un’intossicazione alimentare.

Per quanto riguarda l’ultimo ballo del ’98, invece, guardai tutte e sei le partite della serie di finale su Tele+2, ovvero quello che era il secondo e unico canale satellitare disponibile in Italia. Avevo compiuto 12 anni da poco e non potevo fare le nottate, così guardavo la replica del pomeriggio. Internet e i social non esistevano e di sicuro ancora non leggevo giornali nè guardavo i TG, quindi i rischi spoiler erano minimi.

Ricordo benissimo quell’ultimo minuto di gara: sono passati ventidue anni e ricordo ancora a memoria la telecronaca urlata ed emozionata di Flavio Tranquillo, che grida al cielo “MICHAEL JEFFREY JOOORDANNN” e l’Avvocato Buffa al suo fianco che, con accento milanese, riesce solo a dire “Ragazzi che giocata…”.

https://www.youtube.com/watch?v=3HvVjZ1876I

A settembre di quell’anno mi tesserai nelle fila dello Studio Sport Latina, una piccola squadra di basket della mia città. Questa premessa è d’obbligo perché analizzare quella che è appena diventata la docu-serie più vista di sempre su Netflixco-prodotta insieme alla ESPN (famoso network sportivo statunitense) – non mi viene facile, è qualcosa a cui sono molto legato.

Il documentario racconta “l’ultimo ballo” della franchigia dei Chicago Bulls, stagione 1997/1998, quando la Windy City vinse il sesto titolo NBA in otto anni, un dominio totale di quel torneo che non aveva precedenti e tutt’ora non ha eguali. The last dance sfrutta quella stagione come trama principale, con continui flashback a partire dal 1984, anno d’esordio nella lega di basket più famosa al mondo di Michael Jordan, fino ad arrivare all’indimenticata gara 6 delle NBA finals contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone.

Jordan è il vero protagonista della docu-serie, o comunque il centro di tutte le vicende che vengono narrate, d’altronde non poteva essere altrimenti essendo stato l’indiscutibile trascinatore di quella squadra. Con la sua mentalità che lo portava a lavorare, lavorare e ancora lavorare per migliorarsi e riuscire a vincere sempre e comunque, con la sua aggressività in campo contro gli avversari e in allenamento contro i suoi compagni di squadra.

Ma il vero motivo per cui la scena è tutta sua è ancora più semplice: MJ è da sempre un centro gravitazionale che attira tutti e tutto. Diciamolo chiaramente: se si prende una qualsiasi persona per strada, anche se questa persona non ha mai visto una partita di basket o più semplicemente una palla a spicchi, sa comunque chi è Jordan. L’esplosione del mito della NBA nell’immaginario mondiale si deve soprattutto alle sue gesta.  

Michael Jordan ha raggiunto lo status di mito e The last dance distrugge questa mitologia. Ce lo mostra sempre solo, in una casa enorme vuota e asettica mentre ricorda e rivive la sua carriera, i suoi vizi, i suoi errori (che il suo ego spropositato gli impedisce di ammettere chiaramente) ma soprattutto, ci mostra come abbia più volte avuto bisogno di aiuto.

Racconta i suoi grandi compagni, primo fra tutti Scottie Pippen, l’eterno secondo e troppe volte ricordato per essere solamente la sua spalla; ci racconta di come Dennis Rodman sia famoso per la sua vita privata, ma anche di come sia stato così importante come difensore e rimbalzista per i Chicago Bulls, tanto che fu lo stesso Michael ad andarlo a cercare in giro per Las Vegas in pieno stile “Un notte da leoni” dopo un weekend di permesso. Ancora, del gregario Steve Kerr che dopo tre campionati vinti da giocatore ne vincerà altri tre da allenatore; ci racconta del genio di Phil Jackson, “il maestro Zen” che ha saputo domare il carattere di Jordan e farlo stare al suo posto.

Questo documentario ripercorre non solo un bel po’ di pagine di storia dello sport, ma racconta la maturazione di un ragazzo che voleva fare tutto da solo come un tennista (fu uno dei primi grandi giocatori di sport di squadra ad essere visto dagli sponsor come singolo fino a diventare un vero e proprio marchio), che ha capito come per poter vincere dovesse affidarsi agli altri. Così come gli altri avevano bisogno di lui, delle sue provocazioni, delle sue lezioni, del suo esempio per potersi spingere oltre i loro limiti.

The last dance racconta, attraverso uno schema abbastanza standard per i documentari, come un gruppo di persone dedite al sacrificio e all’impegno, dopo aver vinto tanto – e nonostante una dirigenza non cattiva, ma calcolatrice, che aveva già in mente di dividere quel gruppo leggendario per non perdere degli importanti asset necessari ad una inevitabile rebuilding – si sia guardato in faccia e abbia deciso di buttarsi nell’ultimo ballo che gli era stato concesso per andare a vincere quel sesto titolo, a prescindere da tutto quello che sarebbe potuto accadere dopo.

Il trailer di The last dance, la docu-serie co-prodotta da Netflix ed ESPN che racconta l’ultimo ballo di Michael Jordan e dei suoi Chicago Bulls

di Fabrizio Lucati, all rights reserved

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