j. Come la neve

di Mauro De Clemente

j. Come la neve

di Mauro De Clemente

j. Come la neve

di Mauro De Clemente

Era di guardia. Gli anfibi affondavano nella neve. Neri i primi. Bianca la seconda. Lucenti entrambe. Indifferenti l’una agli altri nella loro perfezione. Lui intanto inclinava il proprio volto all’indietro e socchiudeva le palpebre. Il sole d’inverno gli fece sognare il suo Sud. Imbracciava il fucile e pensava al figlio nato e mai preso in braccio. Ora aveva due mesi. Si chiamava con il nome del padre. Il padre che era ormai soltanto un nome.

La guardia consisteva nel mettere un piede davanti all’altro. A un certo punto ruotare di centottanta gradi e ricominciare. Ogni mezz’ora si dava il cambio con uno dei tre che sonnecchiava. O si domandava perché il videofonino non si connettesse. O sognava una delle fighe che gli avevano lustrato il fucile al paese. Lui preferiva quello che sonnecchiava. D’altronde la guerra era anche quello. Attendere, senza troppa coscienza.

Cosa attendere lo decideva dio. Lui se l’era tatuato sul petto. “In god we trust”. Quelle erano le uniche quattro parole inglesi che conoscesse. Le aveva copiate. Aveva strappato la pagina di Chi con David Beckam e lo aveva imitato. Come il calciatore anche lui aveva un padre. E anche lui desiderava omaggiarlo nel modo migliore. Dio se l’era preso per non farlo soffrire oltremodo. Aveva trentotto anni. Tre figli. Il quarto gli rimase in canna.

Lui si arruolò un mese dopo la sua morte. Anche quello, come il tatuaggio, era un modo per superare il dolore. Per scaricarlo al suolo. Passo dopo passo. Come quando era di guardia. Come in quel momento. Ruotare di centottanta gradi e ricominciare. Anche se nella neve era diverso. Perché la neve non risponde al fuoco, lo accoglie. Come le gambe di una donna, come il burro. Come le gambe della sua donna, morbida come il burro.

Passo dopo passo. Uno, due. Uno, due. Destro, sinistro. Destro, sinistro. Destro, sinistro. La guerra era anche quello. Colmare il tempo. Un deserto di neve intorno. Oltre, le montagne. L’attacco sarebbe potuto arrivare ovunque. Anche da sotto quella neve, per quanto gli riguardasse. Forse sarebbe stato meglio stare fermo. Andarsene. Non poteva. C’era da capire. La guerra era anche quello. Trovare una ragione.

E passo dopo passo. Uno due. Destro sinistro. Lui in quella neve bianca ci stava affondando con i suoi anfibi neri come il lutto. I passi erano trentotto come gli anni di suo padre. Trentotto, centottantagradi e ricominciare. La guerra era anche quello. Rimanere fermi. Ma lui ora aveva un figlio. Un figlio a cui aveva dato il nome del padre. E passo dopo passo uno due destro sinistro non ruotò di centottantagradi. Fece solo un altro passo. Uno di più. Affondò fino al ginocchio. Bagnò la mimetica. Le chiappe gli si strinsero per il freddo. E per la paura. La guerra era anche quello. Ordini da rispettare. Per sentirsi al sicuro.

Il trentanovesimo passo lo disarmò. Come le gambe di una donna, della sua donna. Fermo. Col sole a trivellargli le palpebre. Coi raggi alla velocità della luce. Arrivati ovunque. Strinse il fucile al petto. E sentì di affondare. Nella pelle morbida del figlio. Gli bastò quel passo. Uno di più. Per sentirsi più vicino a casa.

di Chet
Tratto da: Erano – 26 Racconti per gente che fu.
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