Io sono puntini puntini puntini

di Let It D.

Io sono puntini puntini puntini

di Let It D.

Io sono puntini puntini puntini

di Let It D.

 

“Io sono una bambina mora ma carina, adoro la guacamole, so disegnare il di dietro di un elefante e so fare la verticale al muro. Leggo il labiale e i libri al contrario. Di contro, non so fare i tuffi di testa, taglio i capelli solo una volta l’anno, rifiuto di indossare il maglione rosso di lana che mi ha regalato nonna, mangio biscotti solo se sono al cioccolato e walker texas ranger mi fa schifo anche se mio cugino dice che è fico. Ah, dimenticavo, odio il fegato.”

La mia maestra di seconda mi scrisse una nota sul diario e convocò mia mamma per via di questa strana descrizione di me stessa che avevo fatto nel corso di una esercitazione in classe. Il titolo che ci aveva assegnato era: “Io sono puntini puntini puntini”. Dovette ammettere che il tempo presente indicativo era ben coniugato e che le virgole erano al posto giusto ma insistette sulla necessità di capire, magari con l’aiuto di un professionista, perché usassi un linguaggio così diretto e irriverente. Inoltre, appuntò al margine del foglio che una persona non può essere definita da ciò che sa fare o da ciò che le piace. E allora da cosa? Ho sei anni cara maestra, sei perché ho fatto la primina, dovrei saper individuare le mie caratteristiche ontologiche e scrivere, come Chiara, la mia odiosa compagna di banco, “sono una bambina molto simpatica, dolce, solare”? Bleah, mi ripugna solo immaginarlo. A me quelle poche righe erano risultate così precise che mi sembravano sufficienti per dare alla maestra un inquadramento circa la mia persona. A parte il fatto che ho imparato a mangiare qualunque tipo di biscotto, ad oggi, rimane la descrizione di me più pregnante ed esaustiva.

Crescendo, mi sono sempre più convinta che sarebbe stato più facile per me dire chi non fossi, tracciare i confini netti delle mie spiacevolezze, battere la lingua su quanto solitamente rifuggo ed evito. Sono diventata cinica, più cinica della bambina mora ma carina, e ad un’altra ipotetica maestra avrei risposto male se mi avesse chiesto di descrivere me stessa, l’avrei giudicata una questione al limite tra l’ingenuo e il noioso e avrei elegantemente glissato all’inizio ma finito per chiedere a lei chi pensasse di essere e come potesse possedere una tale presunzione nel poter anche solo pensare di avere una qualche certezza circa la propria identità. E avrei chiuso ogni possibilità di dialogo, e di rapporto. Non mi piacciono le parole e tra tutte, detesto gli aggettivi, soprattutto quelli positivi, benevoli, rassicuranti e paciosi tipo: adorabile, delizioso, amabile.

A causa di quella nota fui messa in punizione: un mese senza TV e senza pomeriggi con gli amichetti, una vera cattiveria per un banale componimento autobiografico. Questa punizione mi costò un forte isolamento a scuola, luogo fonte di inaudite crudeltà e vera e unica palestra di vita. Mi costò il non invito a tutti i compleanni degli amichetti della mia classe, fatta eccezione di Manuele che durante quella lontana seconda elementare è diventato il mio primo migliore amico. Lo è tuttora, gli devo quel briciolo di amorevolezza che mi ritrovo. Mi invitò solo perché ai suoi compleanni non ci andava mai nessuno. Abitava in una casa piccola piccola e tutta piena di strani strumenti, il suo babbo faceva l’inventore e creava ogni sorta di diavoleria: meridiane ad acqua, spremi agrumi in gommapiuma, taglia-sopracciglia automatici. La sua mamma, invece, era un’accumulatrice compulsiva e non buttava mai nulla. Come è facile immaginare, in quella minuscola casa si faceva fatica ad entrare. Anche la pulizia lasciava a desiderare. A me piaceva andarci perché ci sentivo un amore tutto strano, mi sembrava una specie di tempio dell’ingegno e dei sogni. Poi c’era sempre un buon odore di ciambellone e di caffè. La adoravo. Manuele non era della stessa idea, lui si sentiva soffocare e odiava i suoi genitori che non lo vedevano immersi com’erano in tutte quelle cose. Mi diceva sempre che non era vero, che non c’era nessun amore e che io ero pazza a parlare così. Scappava di corsa e si nascondeva piangendo nella cuccia di Donald, il suo cane immaginario, anch’essa piena di cianfrusaglie accumulate che rabbiosamente gettava fuori, sulla ringhiera del giardino, per poter entrare. Io lo aspettavo seduta sul primo gradino. Poi lui tornava da me e si scusava, mi regalava qualche strano oggetto che trovava nella cuccia e io lo prendevo volentieri, con un grande sorriso, e quando tornavo a casa lo mettevo nella scatola sotto il mio letto e lo conservavo gelosamente. Era il mio tesoro, era la mia meraviglia. Era il segno che esistevo, se qualcuno poteva farmi un regalo e questo poi esisteva nel tempo, anche io allora ero viva, non me l’ero immaginato.

Ho sempre avuto questa strana paura di non esistere e ogni volta che andavo in un posto nuovo prendevo qualcosa da portare via. A mia mamma dicevo che era per una ricerca a scuola. “A forza di fare ricerche diventerai una scienziata, bambina mia”, mi diceva compiaciuta. Io le sorridevo dolcemente, mi dispiaceva deludere quella bella aspettativa, non avrei mai avuto il coraggio di dirle che a me fare ricerche proprio non mi garbava e che io in realtà da grande volevo fare la portiera. Sì, la portiera. Volevo essere come Serena, la portiera del nostro palazzo. Lei abitava al pian terreno in una casa che aveva una finestrella doppia che si apriva proprio nell’atrio del palazzo da cui lei si affacciava ogni giorno, per controllare tutto quello che succedeva. Anche io volevo fare come lei, volevo guardare e sapere tutto di tutti. Un giorno, mentre spiavo Serena dalla finestra, mi accorsi che lei raccolse da terra un guanto che qualcuno aveva perso, doveva essere un guanto morbido e profumato perché se lo passò sulla guancia e poi lo odorò, quasi estasiata. Invece di mettere un cartello per chiedere chi potesse averlo smarrito, se lo mise in tasca e lo tenne per sè. Mi piaceva condividere con lei quel segreto, anche se ero la sola a saperlo. Ogni volta che le passavo davanti le strizzavo l’occhio complice e Serena ricambiava, senza capire il perché. Quindi sì, da grande volevo fare la portiera, per guardare le vite degli altri ogni giorno e raccogliere ciò che veniva smarrito.  

Quando con mia madre ci trasferimmo a vivere in una casetta indipendente fu per me una vera tragedia. Avevamo cambiato quartiere e non conoscevo nessuno. Con il mio amico Manuele ci scrivevamo lunghe e dettagliate lettere perché ora che abitavamo lontani potevamo vederci molto meno. Per giustificare l’impegno del costo dei francobolli e delle buste dicevo alla mamma che scrivevo le lettere in inglese al mio pen friend, per tenermi allenata con la lingua. Le brillavano gli occhi ed iniziava a pensare che non solo avrei fatto la scienziata ma che magari sarei andata in una di quelle università americane o inglesi, quelle belle con i prati e tutti i ragazzi con gli occhiali che studiano sul prato durante la pausa pranzo. Povera mamma! Non avevo ancora cambiato desiderio professionale!

Venne il periodo delle scuole medie e anche lì mi fu chiesto di raccontare davanti a tutti chi fossi. Una vera ossessione scolastica. Ripetei la solita manfrina della seconda elementare, correggendo la questione dei biscotti e omettendo la riluttanza nei confronti del fegato che mi sembrava decisamente infantile anche se quantomai attuale e, diversamente dal passato, ottenni il plauso del mio professore di italiano, ex sessantottino con i pantaloni larghi e con grandi occhi verdi, il quale mi elogiò a lungo in quanto persona creativa e anticonformista. Vissi di rendita tutto l’anno. Come cambiano i tempi, pensai, un giorno sei problematica e un altro sei avanguardista. Comunque, questo upgrade mi costò ulteriori mesi di isolamento perché divenni la “cocca del prof.”, la “secchiona della classe”, la “raccomandata”. Ringrazio il cielo per l’esistenza dei disadattati perché fu proprio in ragione di questa categoria che conobbi Eleonora, una bambina tutta occhiali e capelli biondi, con tanti brufoli quanti pensieri e con delle mani di fata. Divenne la mia seconda migliore amica e, come Manuele, lo è tuttora. Lei amava cucire, trascorreva pomeriggi interi a fare l’uncinetto con sua nonna perché sua mamma lavorava come domestica fino a sera inoltrata. Suo papà, invece, non parlava, non usciva mai di casa ed era scontroso con tutti. Non ho capito bene cosa avesse, se una sorta di esaurimento nervoso o semplicemente un brutto carattere. Nonostante questa triste storia, Eleonora manteneva una dolcezza allegra che ho sempre profondamente ammirato. Devo a lei quella poca pazienza che ora mi ritrovo. Sviluppai tale dote nel corso di tanti lunghi pomeriggi trascorsi con lei nel tentativo di acquisire l’arte del cucire all’uncinetto. Ci teneva tantissimo che imparassi, diceva che unire i fili era come unire le vite e che le nostre sarebbero dovute rimanere legate per sempre. Io ero decisamente negata ma lei non me l’hai mai detto e solo grazie a questo ho capito come fosse possibile far lievitare la pazienza quando non v’è di mezzo il giudizio, quando si ha accanto una presenza amorevole che non dice nulla e che non considera il fare meglio del non fare; semplicemente non considera la possibilità di non fare. Così il fare sembra la sola strada percorribile, non può essere diverso, ci si mette comodi nelle scarpe nuove e si aspetta che si adattino ai nostri piedi. Poi si prende il passo e non ci si pensa più. Conservo ancora le presine e il centro tavola che feci con Eleonora, nel corso di quei tre lunghi anni di scuole medie.

Pensavo che il liceo scientifico fosse una scuola seria, dove a nessuno importa chi tu sia, dove sono i numeri a farla da padrone e non le parole o gli stupidi aggettivi. Dovetti ricredermi perché, a quanto pare, anche al liceo scientifico hanno il pallino delle descrizioni. Prima ora, professoressa di italiano e latino: “buongiorno ragazzi, parliamoci chiaro, anche se siete al liceo scientifico voi l’italiano lo dovete sapere. Quindi vediamo come siete messi, prendete un foglio e scrivete: Io sono puntini puntini puntini”. E ci risiamo. Ma possibile che dalle elementari al liceo volete sapere tutti la stessa cosa? Possibile che sia veramente la prima cosa che volete sapere, non preferite usare l’osservazione per trarre le vostre conclusioni? “Sono una ragazza mora ma carina, adoro la guacamole, so disegnare il di dietro di un elefante e so fare la verticale al muro. Leggo il labiale e i libri al contrario. Di contro, no so fare i tuffi di testa, taglio i capelli solo una volta l’anno, da piccola rifiutavo di indossare un maglione rosso di lana che mi aveva regalato mia nonna. Mangio ogni tipo di biscotto e adoro leggere”. Modificai un pò la mia presentazione aggiornando la fase anagrafica, utilizzando il tempo passato per la questione del maglione rosso di mia nonna, aggiornai i miei gusti circa i biscotti e inserii una vera e propria bugia circa il mio amore per la lettura, esclusivamente per ingraziarmi l’insegnante. Adesso vediamo un pò, vediamo cosa hai da dire, cara insegnante. Consegnai il compito in anticipo insieme ad un ragazzo alto e buffo, si chiamava Simone. Chiedemmo alla prof. di poter uscire e lei acconsentì distratta. Non ci restituì mai un commento di questo compito e mai più vi fece accenno. Quindi, ancor peggio di ricevere un giudizio fu il non ricevere nulla, un’amara conferma circa i dubbi esistenziali che, oramai da diversi lustri, mi accompagnavano. In compenso conobbi Simone, il mio terzo migliore amico, a lui devo quel poco di coraggio che mi ritrovo. Lui era il più piccolo di sei fratelli, tutti maschi, i cui nomi iniziavano tutti con la S: Samuele, Sandro, Selenio, Severino, Stefano e Simone appunto. Che razza di perversione. Aveva sempre dei vestiti fuori moda, eredità dei suoi fratelli, e un atteggiamento menefreghista e triste che attirava la mia attenzione e che mi ingenerava una smisurata tenerezza. Lui sembrava non ascoltare nulla di ciò che aveva intorno, diceva sempre che l’unica cosa che conta è la voce che hai in testa. Forse per questo indossava sempre un berretto, per tenere caldi i pensieri. Con lui ho imparato l’arte del silenzio: ci piaceva trascorrere intere ore affacciati alla ferrovia, soprattutto quelle di latino. Diceva che a casa sua si sentiva sempre parlare e argomentare e sentenziare e che, invece, lui amava ascoltare i rumori del mondo. Io gli tenevo stretta stretta la mano quando eravamo seduti sul ponte che affacciava sulla ferrovia. Non so perché ma sentivo di doverlo fare, lo tenevo vicino, non volevo che ci si perdesse, nei rumori del mondo.

Decido di saltare il primo giorno del mio corso di teatro autobiografico, un nuovo indirizzo della scuola di teatro proposto con lo scopo di approfondire la conoscenza di sé e, di conseguenza, degli altri del gruppo. Le mie velleità di portiera si sono mantenute costanti nel corso del tempo. Decido di saltare il primo giorno per evitare l’ennesima presentazione ma, soprattutto, le inesorabili conseguenze. Me ne vado al fiume, sola soletta, e mi compro il gelato panna e cioccolato, con tanta panna e poco cioccolato, il mio preferito. Mentre me ne sto con i piedi penzoloni che sfiorano l’acqua melmosa, chi mi vedo di fronte, in lontananza? Mio padre, quel padre che non vedo da diciannove anni. E’ diverso da come lo ricordavo, sembra più giovane della foto che tengo dentro il primo cassetto del mio comodino: ha un paio di jeans e una polo nera, la giacca scivola con disinvoltura sulla spalla destra. Alla sua sinistra una donna bionda e alta, vestita sportiva. Non posso non notare la carrozzina che spinge e le allegre gridoline di un poppante di cui di tanto in tanto scorgo mani e piedi agitarsi in maniera scoordinata. Non si accorge di me, mio padre. Io li osservo attentamente, penso a come faceva Serena, la portiera del mio palazzo, che guardava tutti senza che nessuno se ne accorgesse. Da lontano li raggiunge una ragazza mora ma carina, avrà all’incirca la mia età, indossa un maglione rosso dalle maglie larghe, sembra me. Vedo il mio doppio e non mi basta ripetere quello che mi piace e quello che so fare per riprendere le mie sembianze. Forse la mia maestra delle elementari aveva ragione. Anche oggi, nonostante volutamente non mi sia presentata al corso, mi si presenta il dilemma della mia esistenza. Chi sono? Dove sono stata fino a questo momento? Sono esistita veramente o è stato tutto un sogno? Chiamo Manuele, forse lui può aiutarmi a farmi riprendere la giusta dimensione della mia persona.

“Ciao Manu, sono io.”

“Io chi?”

Oh, no ci risiamo.

“Scherzo stupida, lo so chi sei”.

“Manu e allora chi sono?”

“Sei Daniela, quella che ha visto il bello nella follia della mia casa, quella che vede la poesia nel ciarpame e nell’immondizia. La mia prima amica non immaginaria.”

“Ok, ok, Manu grazie, ora devo andare”.

Piango. Mi succede sempre così quando qualcuno, in qualche modo, dice di volermi bene e testimonia così che io esisto. E’ come se non avessi il fondo per tanta bellezza, è come se non fosse veramente per me.

Li sento parlottare allegramente. L’altra me tira fuori dalla tasca un foglio, tutta tronfia e, in un perfetto inglese, dice di aver ottenuto l’ammissione in un prestigioso college di Londra per i suoi studi universitari. Vuole diventare una biologa. Come ho fatto a capirlo se l’ha detto in inglese? Perché sua madre, pazza di gioia, l’ha urlato a gran voce, non potevo non capirlo.

Mi tremano le gambe. L’altra me non solo è come me ma è tutto quello che mia madre avrebbe voluto che fossi. E’ un incubo, cosa devo fare? Il gelato mi si sta sciogliendo sulle mani e le lacrime portano via dai miei occhi il nero del mascara che non metto mai ma che oggi, primo giorno del corso di teatro, avevo deciso di utilizzare. E ora cosa succede? Chiamo Eleonora, ho bisogno di tempo per pensare e forse lei può aiutarmi.

“Ele ciao sono Daniela”.

“Dany lo so chi sei, mi compare il tuo numero sullo schermo del cellulare”.

“Ah ok, senti Ele, devo chiederti una cosa, scusa ti sembrerà stupido”.

“Dany, aspetta che metto gli auricolari così posso ascoltarti mentre ricamo. Dimmi pure”.

“Ele senti secondo te io chi sono?”

“Tu sei l’ibuprofene quando ho i dolori forti forti del ciclo. Agisci in fretta e mi dimentico di averti preso.”

Scattano una foto: mio padre, la moglie, la piccola bambina o il piccolo bambino – non riesco a scegliere il sesso – e l’altra me. Vedo aprirsi i loro sorrisi e le loro voci si fanno via via più forti, in preda ad un grande eccitamento, in un affetto convulsivo che fa scomparire tutto intorno. Mi sento persa nelle loro voci, me le sento dentro, non riesco più a stare nel mondo. Devo chiamare Simone, forse lui sa come si fa a ritrovare se stessi.

“Simo, Simo, per fortuna ti ho trovato, senti Simo, mi sono persa nelle voci, secondo te chi sono?”.

“Ti stavo pensando. Dany tu sei quella che mi ha tenuto in vita, sei quella che non mi ha fatto perdere nei rumori del mondo.”

Respiro. Lecco quello che rimane del gelato panna e cioccolato, il mio preferito. Mi asciugo le lacrime con la manica destra, mi alzo e riprendo i miei passi. Ho una scarpa slacciata e devo stare attenta per non inciampare. Una folata di vento mi fa sentire freddo e la pelle subito si fa d’oca. C’è odore di erba appena tagliata qui, accanto al fiume. Il rumore di un aereo mi fa alzare lo sguardo al cielo. Il cuore mi batte come dopo una lunga corsa. Respiro, ancora.

Passo accanto a quel quadretto felice e già non lo riconosco più.

Sicuramente l’altra me le verticali al muro non le sa fare ma i tuffi di testa sì, amerà la lettura ordinaria, e il labiale poi, sicuramente non sa leggerlo altrimenti avrebbe capito ciò che le ho detto mentre, guardandola, le passavo accanto … “addio, torno ad essere me”.

 

 

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