Io che il coraggio non ce l’ho e vado comprarlo da Danilo

di Cara Futura Rigby

Io che il coraggio non ce l’ho e vado comprarlo da Danilo

di Cara Futura Rigby

Io che il coraggio non ce l’ho e vado comprarlo da Danilo

di Cara Futura Rigby

Alle elementari, un giorno, Danilo mi chiamó a casa. “Pronto?” risposi io. “Ti voglio bene”, disse lui dall’ altro capo del telefono.Avevamo 8 anni.Dissi: “Grazie”. E riattaccai.Mia madre era davanti a me: “Chi era?” chiese.“Danilo” dissi, mentre fissavo il muro dietro di lei.“E che voleva?” chiese mamma.“Niente”, feci una pausa. “Voleva chiedermi solo i compiti per domani.”L’indomani poi, a scuola, io non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi. Non ce l’ebbi più. Di lì e per gli anni successivi, non ce l’avremmo più avuto il coraggio di guardarci negli occhi.E trascorsero così i restanti due anni delle elementari, senza dirci niente, muti, con il nostro segreto. Non ci dicemmo mai più nulla, nemmeno quando l’anno successivo ci ritrovammo dietro la tenda della classe, rifugio per entrambi di un turno di nascondino. Io e lui, soli dietro la tenda, e il ricordo di quella chiamata tra noi. Lui che mi rivelava il candore di un sentimento ad un’età profumata compresa tra la scoperta del calcio e il chiasso dell’adolescenza. E io, che non seppi dire altro se non un sorpreso “Grazie” seguito dal click di una cornetta abbassata.Ho rincontrato Danilo qualche mese fa davanti il Nuovo Cinema Palazzo, a San Lorenzo. Eravamo entrambi lì per una serata di raccolta fondi sul Rojava. Lui adesso è più alto di me di almeno due spanne e io adesso sono alta più di quando ero piccola di almeno due spanne. Ci parliamo degli ultimi 28 anni, comprimendo il discorso dentro le pieghe di domande meccaniche sulle nostre attuali professioni e un più affettuoso “Come sta tua mamma”. Quando ci salutiamo, lui mi stringe nel suo North Face nero, che sarebbe identico al mio se non fosse di due taglie di più e se non fosse che è lasciato aperto in onore del pile che indossa sotto, che rende il mio atterraggio sul suo petto più morbido e spazioso di quanto non feci 28 anni prima. Lo guardo dal basso verso l’alto. “Scusa se rovinai la tua prima dichiarazione d’amore” gli dico. Avevo 8 anni e ancora mi maledico per essere riuscita a dire solo “Grazie”. Ma, il problema, e Danilo non lo sapeva, è che in realtà io al posto di quel “Grazie” avrei voluto dire “Anche io”. La bocca disse “Grazie” mentre il cuore assiderato di una confusa ottènne diceva “Anche io”. Ma a me il coraggio non è mai venuto. E mi venne solo un “grazie” che credo stesse per “grazie del coraggio, io in amore non ne avró mai”. Ci sorridiamo, io che guardo lui alto e lui che guarda me bassa. Mi dice: “Dammi il tuo numero.” Io gli dico: “Giuro che ‘Grazie’ non te lo dico più.” E ridiamo. All’interno di un libro di Zerocalcare compare una frase. La frase dice: “Il mio incubo peggiore è che qualcuno si vergogni di avermi voluto bene.” Ecco, e io con quel gelido e secco “Grazie”, ho sempre temuto che Danilo si fosse vergognato di avermi voluto bene, si fosse vergognato di avermelo detto, di aver consegnato nelle mani sbagliate, le mie, il suo costoso sentimento, così irrequieto e così puro. E che io tuttora non mi perdono di aver posto fine al suo coraggio col mio scomodo “Grazie”. Credo esista un sintomo primario e gravoso che avrebbe occupato la vita futura di noi adulti stitici e ammodo, ex-bambini beneducati e precocemente civilizzati. È il sintomo che ci compare di fronte all’ amore incorrotto e vivo, che quando ci trova scoperti e impreparati, ci coglie muti e inebetiti e ci sorprende a rispondere con una stronzata o un contrario al posto della verità. “Il mio incubo peggiore è che qualcuno si vergogni di avermi voluto bene”, dice Zerocalcare. Ed è anche il mio di incubo. Insieme al terrore per le cose che spariscono e non tornano mai più. Ma com’è che le cose a un certo punto spariscono? Voglio dire, come accade? Tempo fa mi imbattei in un articolo sul National Geographic. È la storia degli elefanti con le zanne, oggetto e mira dei bracconieri, che adesso iniziano a scomparire, ad essere in numero minore rispetto a quelli senza zanne. Ci si è chiesti come mai. Una possibilità è che esso sia l’effetto di un adattamento evolutivo, cioè che gli elefanti hanno capito che senza zanne campano di più. E benchè sia un’ipotesi ghiotta, in realtà non è una spiegazione scientifica, che invece è diversa. Il motivo è che gli esemplari privi di zanne non sono di interesse per i bracconieri, e dunque hanno più probabilità di rimanere vivi. L’uomo ammazza gli elefanti con le zanne grosse, lo fa ripetutamente, per cui nella popolazione viene selezionato negativamente il carattere delle zanne grosse ed è per questo che la natura inizia a prediligere il carattere senza zanne. È una spiegazione più scientifica della prima, certo, ma rimango a pensare che non sia meno preoccupante. Insomma, non sono gli elefanti a decidere di nascere senza zanne per non farsi catturare, ma la natura a selezionare quelli che sopravvivranno. La natura dirige chi è destinato a sopravvivere e chi no.Non meno preoccupante. Soprattutto perchè, tutto questo, penso, accade per mano dell’uomo. Quando saluto Danilo e rimetto le mie mani in tasca e il mio cuore al coperto del North Face, sono in fila per entrare al Nuovo Cinema Palazzo. Fa freddo e mi tremano le gambe, mi passa Valerio Mastandrea accanto. Io sospiro, chiudo gli occhi e per un attimo, rimango sola con me stessa. Rimango a pensare ai miei incubi peggiori. Che qualcuno si vergogni di avermi voluto bene e che le cose un giorno muoiano e non tornino mai più. Come il modello politico e sociale del Rojava o come il Crystal Ball, come Lou Reed o come il cono Palla. Vorrei che Danilo non si fosse mai vergognato di avermi voluto bene. E vorrei che gli umani non smettessero mai di dirsi che si amano, per colpa di qualcuno che, di fronte ad un amore così nitido e intemerato, ne rimase impietrito. E gli attaccó il telefono in faccia. Perchè il rischio è che se gli umani non se lo dicono più, chi ce lo assicura che poi la natura non giunga a prediligere chi rimane in silenzio. Vorrei che la natura premiasse chi il coraggio lo conserva aldilà di ogni vergogna e aldilà di ogni forza contraria, aldilà di ogni timore o aldilà di ogni minaccia per se stesso. Perchè io il coraggio spesso non ce l’ho. E vado a comprarlo a peso d’oro nel ricordo della telefonata di Danilo, vado a comprarlo a costo del freddo dentro le forze collettive che aggregano noi umani. Vado lì per sentirmi in imbarazzo con me stessa, vado lì a sperare di non sentirmi più sola se qualcuno mi insegna ad avere meno paura. Io che il coraggio spesso non ce l’ho e guardo con stima a chi, invece, ce ne ha.Dovremmo poter pensare alle nostre scelte come a qualcosa che non solo ha degli effetti immediati o nel mero quotidiano. Dovremmo poter pensare che le nostre scelte sono un modo per sostenere in natura il carattere evolutivo che vorremmo sopravvivesse e non sparisse. Come il coraggio. Che in tempi come questi, ci manca in molte cose. E va a finire, poi alla fine, che in compagnia dei bracconieri rimane solo chi le zanne non le ha più.

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