“Certa gente non vuol più pensare”. Intervista ai Dasvidania

di Pietro Maria Sabella

“Certa gente non vuol più pensare”. Intervista ai Dasvidania

di Pietro Maria Sabella
"Certa gente non vuol più pensare". Intervista ai Dasvidania

“Certa gente non vuol più pensare”. Intervista ai Dasvidania

di Pietro Maria Sabella

1) “La tempesta” è il nuovo singolo dei Dasvidania, disponibile sulle piattaforme dal 31 ottobre. Come è nato il vostro nuovo singolo? 

È un singolo che segue all’uscita di “Noi c’immergeremo” dello scorso anno e anticipa l’uscita di un nuovo brano previsto per dicembre-gennaio (almeno così nelle previsioni). Ad un primo ascolto si presenta come una canzone d’amore, ma nella forma di un diniego, del desiderio di liberarsi da qualcosa che soffoca e provoca fastidio; ma è solo un pretesto, in realtà il brano non manca di denunziare vizi e caratteristiche del nostro tempo “Certa gente non vuol più pensare“, l’estraneità a pensieri associativi che nascondono preoccupanti derive “non sopporto la fedeltà” la fedeltà come disvalore quando è a un partito, a un’ideologia, un brano infine che ci ricorda l’esiguità del tempo destinato a ogni essere vivente “c‘è dell’altro che io posso fare, ma non mi basta il tempo”. Anche questa volta, come per “Noi c’immergeremo” abbiamo chiesto al film-maker Angelo Onorato di realizzare un video che non avesse le caratteristiche di quello che si trova nel  mercato, qualcosa di poetico e minimale.  

Il nuovo singolo dei Dasvidania, “La Tempesta”

2) Possiamo dire di essere in attesa di un nuovo album?

Essendo cambiata la logica del mercato discografico stiamo procedendo in modo diverso: pubblicheremo diversi singoli che poi confluiranno in una raccolta, dunque in un cd che conterrà i brani sino a quel momento pubblicati. 

3) Fin dal debutto, i Dasvidania hanno saputo interpretare la musica come linguaggio universale, lontano da quelle forme di irrigidimento che solitamente legano un autore ad uno stile. In questi 30 anni di attività, avete attraversato, immergendovi letteralmente, in molti generi diversi, creando un unicum nel panorama musicale italiano. Come nascono i componimenti dei Dasvidania? Come si unisce un violino ad una chitarra elettrica?

Solitamente tutto viene fuori da qualcosa che parte per sola chitarra e voce (Marcello), a questo segue la stesura del testo (Davide), ma può capitare che tutto sia invertito, e in questo caso la canzone nasce da un abbozzo di testo, da alcune frasi per evolversi in melodia. Poi è il momento in cui intervengono i componenti della band, le chitarre di Andrea, il basso di Pietro, il tutto coordinato e seguito maniacalmente dalla direzione artistica di Davide.

Il caso del violino e della chitarra elettrica credo avesse prima di noi un solo esempio in Italia, quello della PFM. Quando pubblicammo High länder, era il ’99, in Italia il violino nel rock era pressoché assente, probabilmente siamo stati la prima band italiana a proporre nell’etno rock questo strumento classico con un suono “sporco” (Davide usa una pedaliera da chitarra elettrica per il suo violino).    

4) Qualcuno ha intravisto messaggi politici nella vostra musica eppure sembrerebbero più riflessioni filosofiche universali attraverso cui mettete al centro di tutto l’uomo e la sua umanità. Quanto hanno influito gli studi umanistici nella vostra musica? Quanto un testo deve saper poter dire di chi lo scrive e soprattutto di chi lo ascolta?

Abbiamo spesso raccontato in simboli e musica epopee di popoli, esodi e ritorni, pellegrinaggi e colonizzazioni. Abbiamo delineato con la musica uno spazio in cui il confine è qualcosa di mistico e universale ma al tempo stesso una longitudine precisa, quella linea che taglia in due la Sicilia isola del vento, pietra eruttata dal ventre del mondo e abbandonata a bruciare al sole. Abbiamo dato voce a nostro modo ai kossovari, ai tibetani, ai palestinesi, alle proteste dei giovani iraniani contro il regime, ai profughi di tutte le guerre, ai nomadi di tutte le fughe, perché la Sicilia per noi è sempre stata archetipo di tutti i paesaggi a venire e simbolo di ogni desertificazione possibile. In questo senso abbiamo fatto sempre politica, nel senso più consono a noi, nell’unico modo in cui volevamo farla. Siamo stati fortunati, la libertà è spesso un concetto ambiguo. 

5) Nonostante le evidenti radici culturali siciliani, i Dasvidania sono uno dei pochi gruppi italiani realmente mitteleuropei. Come ci siete riusciti?

Prima che la band si formasse alcuni componenti avevano vissuto in diverse città europee. Probabilmente questo ha fatto la differenza, il sentirsi cittadini d’Europa prima ancora che siciliani o italiani. Nel nostro caso stile e continuità hanno sempre significato corsa costante ad innovarsi, a guardare oltre l’orizzonte, a porre attenzione alle correnti artistiche che in quegli anni si affermavano oltre il confine italiano; tutto questo si è tradotto anche musicalmente in un’impossibilità fisica a restare chiusi in una forma stabile; a evidenziare un istinto anarchico e iconoclasta, che tuttavia ha prodotto un percorso unitario di attraversamento della forma-canzone che ha pochi referenti nella musica italiana di oggi. Il nostro è un modo di fare musica che non conosce regole di esclusione tra generi, ritmi, suoni e contaminazioni.

6) Da pochi giorni abbiamo celebrato il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, che la vostra generazione ha vissuto in prima persona, contribuendo ad un cambiamento di passo che sembrava aprire le porte ad un nuovo modo di essere e di vivere in Europa. Tuttavia siamo ancora in mezzo alla tempesta e “certa gente non vuol più pensare”. Cosa è cambiato da quegli anni? Quanto la musica è ancora in grado di interpretare, annunciare e accompagnare le rivoluzioni storiche di un certo periodo?

Sembra siano passati secoli. In un certo senso quella generazione è stata tradita, forse da un eccesso di idealismo, da aspettative che, soprattutto negli ultimi anni, si stanno scontrando con un quadro politico desolante. Come se tutte le emozioni provate in quegli anni precedenti e appena seguenti l’abbattimento del muro di Berlino fossero state qualcosa che abbiamo solamente sognato. La musica oggi non si occupa più di questioni importanti, quel che resta del discorso musicale si è ripiegato in forme estreme di individualismo, qualunquismo, mancanza pressoché totale di ideali. Non si sogna più, non ci si emoziona più, i mega concerti a favore, a sostegno di, sono solo un lontano ricordo. Tu pensa che il nome della Band per noi è stato un omaggio e un saluto (Arrivederci) alle popolazioni che finalmente potevano affacciarsi oltre quel maledetto muro, oltre la Cortina di ferro. Ai popoli dell’Est. 

La canzone probabilmente più famosa dei Dasvidania, “Lettera del nonno alla sua sposa”

7) “Lettera del nonno alla sua sposa”, è una delle vostre canzoni più belle in assoluto, se dovessi scrivere una lettera a tuo nipote, cosa gli raccomanderesti e cosa raccomanderesti a tutti noi?

Di non dimenticare quello che ha significato in termini culturali l’Europa per il mondo intero, l’Italia del passato, il Rinascimento, i poeti, i grandi musicisti; di non mortificare mai la propria creatività, il senso critico, di non piegarsi mai a moti irrazionali e volgari. Il rischio di una massificazione spesso inconsapevole del pensiero è già una realtà, “l’uomo a una dimensione” di Marcuse è tra noi, te lo vedi scorrazzare felice per centri commerciali, il consumatore euforico e ottuso, acritico, la cui unica “libertà” è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi che il mercato gli propone. E questo vale soprattutto per quel che resta dell’attuale mercato discografico.

di Pietro Maria Sabella, all rights reserved

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