Rotta balcanica:
“Caso umanitario”

Rotta balcanica: “Europa e Italia coinvolte in un disastro umanitario”

La testimonianza di due attivisti, i numeri, i dossier aperti
Cosa ne è stato del 2020 per i migranti, tra violenze e respingimenti

di Anna Madia

Rotta balcanica:
“Caso umanitario”

Rotta balcanica: “Europa e Italia coinvolte in un disastro umanitario”

Rotta balcanica:
“È disastro umanitario”

di Anna Madia
rotta balcanica

Rotta balcanica:
“Caso umanitario”

Rotta balcanica:
“È disastro umanitario”

La testimonianza di due attivisti, i numeri
Cosa ne è stato del 2020 per i migranti, tra violenze e respingimenti

di Anna Madia

Due parole tornano ciclicamente nel viaggio dei migranti lungo la rotta balcanica. “Gioco” e “giungla”. Le usano loro, la prima per raccontare l’azzardo di una marcia con due scarpe di tela ai piedi, sperando di arrivare in Europa; la seconda, per descrivere i boschi di Bosnia in cui ci si accampa e si vive, per settimane, non molto lontano dai turisti inconsapevoli che noleggiano le canoe per seguire il corso dei fiumi.

Lorena Fornasir quei boschi li ha visti: in due anni ci è entrata 18 volte. Insieme al marito, Gian Andrea Franchi, ha deciso di non voltarsi dall’altra parte e di affiancare al suo lavoro di sempre, quello di psicoterapeuta, un impegno quotidiano nel soccorso dei migranti. Ha imparato a medicarli, li aspetta con il cibo, porta loro vestiti, coperte e scarpe in quella piazza della stazione che ormai è diventata la “Piazza del mondo”.

foto 1 rotta balcanica

Nei boschi della Bosnia

“Da quando abbiamo cominciato, nel 2015, la situazione è diventata insostenibile”, ci racconta Lorena mentre, come ogni giorno, si prepara ad uscire di casa insieme agli altri volontari dell’associazione Linea d’ombra. “Abbiamo assistito a un peggioramento inesorabile e progressivo delle condizioni di vita dei migranti. In questo momento, in Bosnia, si è arrivati al disastro umanitario. Hanno chiuso un grande camp dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni che, seppur enorme e certo inadeguato, comunque era un luogo. Un luogo che almeno poteva ospitare le persone. Adesso che non esiste più centinaia, migliaia di migranti sono costretti a vivere in condizioni disumane nei boschi, o in squat fatiscenti. Ci sono decine e decine di ragazzi morti, di corpi, nei boschi tra la Bosnia e la Croazia, e anche qui nel nostro Carso triestino”.

La rotta balcanica è la più battuta, più ancora del Mediterraneo: solo tra gennaio e giugno del 2020, secondo i dati diffusi dal Viminale, si contavano 9300 ingressi. Negli ultimi mesi si sono drasticamente ridotti, a causa – probabilmente – delle condizioni atmosferiche e dei controlli serrati tra Bosnia e Croazia.

“L’ultima volta ci siamo stati nel febbraio del 2020. La prima volta era nel giugno del 2018. Tra questi due estremi – spiega Gian Andrea, che un tempo era professore di liceo – abbiamo notato un peggioramento preoccupante. Prima la maggior parte della popolazione bosniaca aveva un atteggiamento relativamente sereno nei confronti dei migranti, anche perché molti di loro sono musulmani, come i bosniaci. Questi ragazzi potevano circolare per le strade e per i bar, sentirsi non certo a casa ma in qualche modo accolti. E questo valeva anche per i volontari. La situazione è precipitata verso la fine del 2018”. 

“In Bosnia – continua Andrea – il potere dello Stato centrale è molto debole e il coordinamento tra i cantoni locali, che hanno ampia autonomia, funziona poco. La popolazione non è molto numerosa. Parliamo di piccole città, come Bihać, di 50 o 60 mila abitanti. Ma soprattutto è una popolazione povera che fornisce essa stessa un alto numero di migranti alla Croazia e alla Slovenia e che ha ben impressi in mente i ricordi di una guerra terribile. A lungo andare, questa gente ha capito che il fenomeno migratorio non sarebbe stato contingente e passeggero. Era un fatto destinato a durare, e credo che questo sia stato l’elemento importante: ha creato una frattura tra i migranti e la popolazione”. 

foto 2 rotta balcanica

L’Italia dei diritti e dei respingimenti

Così, anche aiutare i migranti è diventato più difficile, sia in Bosnia che in Italia. E non tanto per la pandemia – che, tranne per pochi giorni, non ha impedito i soccorsi per “urgenti motivi sanitari” – ma perché molti di coloro che arrivano rischiano di essere ricacciati indietro. È la prassi delle riammissioni che però è legale solo in determinate condizioni. E diventa invece un respingimento illegale se viene usata per allontanare i richiedenti asilo o i migranti che potrebbero diventarlo facendone domanda.  

Un tema che è stato sollevato da diverse realtà attive in Friuli Venezia Giulia, come l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Ma, in modo piuttosto sorprendente, è stato affrontato anche dal governo italiano in Parlamento. Rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il sottosegretario all’Interno Achille Variati ha riconosciuto, nel luglio scorso, che esistono “procedure informali” con cui i migranti arrivati in Italia vengono riammessi in Slovenia. Procedure, cioè, che si concludono senza un atto, senza un documento che consenta al migrante di opporsi e contestarlo per vie legali. Ma c’è di più: si tratta, ha aggiunto Variati, di iter che vengono avviati “anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere la protezione internazionale”. 

Parole che hanno scatenato la reazione del mondo degli attivisti e dei giuristi e hanno spinto la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a una parziale smentita dei propri stessi uffici. Lamorgese, pur confermando l’intenzione di potenziare i controlli, ha rassicurato sul rispetto di norme e trattati. E però anche se un trattato – come l’accordo bilaterale Italia-Slovenia del 1996 – autorizzasse procedure come queste, certo è che nessun accordo potrebbe mai violare una convenzione internazionale a tutela dei diritti umani. 

Questo ribadisce, tra gli altri, proprio Asgi che con una corposa documentazione conferma l’uso disinvolto degli “accompagnamenti alla frontiera” e il rischio serio di “respingimenti a catena” verso Slovenia e Croazia. Stati che il Ministero dell’Interno definisce “intrinsecamente sicuri” ma che, oltre ad accumulare accuse ripetute di violenze, secondo dati Eurostat accolgono un numero irrisorio di domande di protezione internazionale.

Lorena ne parla senza mezzi termini: “Anche nell’Europa dei diritti, nella nostra Europa, avvengono vere e proprie deportazioni. Ci è capitato di sentire le urla, le grida di questi ragazzi che imploravano di non essere deportati. E invece vengono intercettati, portati in un grande tendone qui in Friuli Venezia Giulia e poi riportati in Slovenia. La Slovenia a sua volta li consegna in Croazia e la Croazia si accanisce rigettandoli infine in Bosnia, cioè fuori dallo spazio Ue”. Perché? “Perché li ritiene colpevoli di essere riusciti a salvarsi”. 

foto 3

L’Europa sigilla i confini

Per gestire i flussi migratori dal 2015 ad oggi, la Croazia ha ricevuto dall’Unione europea 149,83 milioni di euro. Di questi, come documenta un rapporto del gennaio 2020 della Commissione Ue, poco più di 40 milioni sono stati destinati alle politiche per l’asilo, per la migrazione legale e l’integrazione, mentre 109,23 milioni sono andati al Fondo di sicurezza interna, l’apparato che controlla i confini esterni dell’Europa. 

Le forze di polizia che ricevono mezzi e risorse finanziarie per intervenire sono le stesse che da anni vengono accusate di violare i diritti umani e che, appena un mese fa, la stessa Unione europea – su sollecitazione di Amnesty international – ha deciso di sottoporre a indagine attraverso il proprio Ufficio del difensore civico.

“L’Europa alimenta con milioni e milioni di euro la Croazia facendone la guardiana d’Europa. Le paga i controlli, le permette di usare dispositivi sempre più sofisticati. Rilevatori, droni, di tutto per rintracciare i migranti nei boschi”, dice Lorena. “Ma poco o niente dei soldi stanziati – aggiunge – va a vantaggio di chi vive nelle baracche o per strada. Quando arrivano da noi, molti di loro portano sul corpo cicatrici orrende, dovute agli abusi, alle schegge di granata, alle bombe su cui magari è saltata la famiglia”.

Andrea sintetizza così il comportamento dei diversi Stati: “Ci sono Paesi più rozzi e più poveri, come l’Ungheria, e Paesi più ricchi come la Germania. Ma la logica non cambia: le poche aperture che ci sono state verso i migranti, come la decisione di Berlino di accogliere 600 mila siriani, sono arrivate per ragioni economiche da Paesi che avevano bisogno di forza lavoro. Non si è mai trattato di un’accoglienza politica. Un’apertura in questo senso non è nemmeno all’orizzonte e non credo che arriverà mai”.

“Per questo non si parla di quel che succede, – aggiunge Lorena – perché parlarne significherebbe parlare di Europa. Vorrebbe dire mettere in crisi un sistema che si regge sulla violazione di diritti umani e politici. Quindi si preferisce tacere e consentire che vengano costruiti campi di concentramento a pochi chilometri dal nostro confine di terra”.

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Trieste, città di frontiera

E a Trieste chi rimane? La città di frontiera, per natura e per cultura, oggi è sede di un transito sempre più veloce. Chi arriva – soprattutto giovani uomini da Afghanistan, Iraq, Pakistan, Siria, Bangladesh, Kashmir, mentre le famiglie hanno bisogno di rivolgersi ai passeurs e scelgono altre strade – prova a prendere il primo treno, si sposta verso Udine o tenta di raggiungere il sud Italia. Tutto per non essere individuato e respinto.

“I triestini osservano il flusso tra l’indifferenza e l’irritazione. Da queste parti – spiega Andrea – avevamo già visto una grande migrazione alla fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta, ma era diversa. I migranti, prevalentemente africani, arrivavano in una provincia industriale come Pordenone per lavorare in fabbrica. Ed entravano nella dimensione della fabbrica, con le rivendicazioni, le manifestazioni, gli scioperi. Oggi – continua – chi arriva è solo, duramente provato, addirittura malato e ferito. Ha fame, manca di tutto, a volte non sa nemmeno dove si trova”.

Come ci si attrezza per essere utili a gestire questo? “Siamo sempre stati impegnati nel sociale, ma non è stato semplice. Io venivo dal Sessantotto e da una mobilitazione politica e quando mi sono accorto che qui bisognava cominciare dall’assistenza elementare, medicare le ferite, dare da mangiare, trovare un vestito, ho avuto delle perplessità. Mi dicevo: ma insomma, sono diventato una sorta di Croce rossa laica? E invece ho capito che questo tipo di impegno per i migranti, che ritengo in sé politico, non può che partire dai bisogni elementari delle persone. E soltanto attraverso questi arrivare agli altri bisogni”. 

Gli altri bisogni, dopo la sopravvivenza: il diritto di rimanere, di lavorare. Il diritto di essere curato che Lorena si sta impegnando a conquistare per Umar, richiedente asilo. “Lo abbiamo conosciuto l’anno scorso mentre risalivamo la rotta balcanica. Guardandolo, quel giorno, mi sono accorta che c’era qualcosa che non avrei mai voluto vedere: era stato torturato con una sbarra incandescente”. Ma Lorena ha trovato un chirurgo plastico: Umar sarà curato in Italia. Da tempo ormai aiuta Lorena in “Piazza del mondo: “È un grande esempio di integrazione. E tuttavia in lui vedo i segni esemplari di quel che significa essere migrante: non un singolo trauma, ma una serie di traumi ripetuti e accumulati nel tempo che si sedimentano e lo rendono un sopravvissuto”.

Per questo il gameè il gioco per la vita o per la morte, è un giocare la propria vita”, dice Lorena. “Se vinci il game ce l’hai fatta e sei entrato in Europa, se perdi… sei un fallito quando ti va bene, sei morto quando ti va male”. Come il ragazzo di 20 anni che, il primo gennaio del 2020, è caduto in un precipizio al Castello di San Servolo mentre cercava di sfuggire a un inseguimento. Ha lasciato una moglie e un figlio appena nato.

“Ecco, abbiamo i boschi che pullulano di voci e mi sembra che il vento li trasporti a noi. È difficile andare a dormire nei nostri letti caldi e sentire, sapere, magari in modo quasi allucinatorio come succede la notte, che i boschi sono pieni di questi ragazzi che cercano soltanto la pace. Molti di loro, che vorrebbero attraversare l’Italia e spingersi oltre, verso il Nord Europa, me lo dicono: Mom, quello che voglio è solo la pace. La pace e un lavoro”.

Per firmare la petizione di Linea d’ombra: clicca qui.

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