Il vino nella tradizione medievale

di Fabrizio Spaolonzi

Il vino nella tradizione medievale

di Fabrizio Spaolonzi

Il vino nella tradizione medievale

di Fabrizio Spaolonzi

Dopo un breve stop, torna la Commedia Divi(g)na, per proseguire nel percorso storico e culturale che il nostro protagonista di sempre, il vino, ha affrontato per arrivare sino a noi oggi, tra tavole e vigne. Il vino, come abbiamo visto, è stato ed è ancora oggi un simbolo, parte integrante della vita quotidiana, popolare e religiosa.

Quello che è il vino per la tradizione ebraica lo è egualmente, se non ancor di più, per il cristianesimo. E vediamo perché.

Riprendiamo da Roma, dove ci eravamo lasciati  con le prime produzioni davvero su vasta scala, guidate da un consumo notevole e diffuso, tipico di quell’epoca.

A seguito delle continue invasioni ed incursioni dei barbari (400-500 d.C circa) vi fu il trasferimento della capitale a Bisanzio, che causò un rapido abbandono delle campagne, con un conseguente allontanamento anche dalla coltura della vite. Solo nelle aree più prossime alle grandi città continuò la viticoltura, ma sempre meno raffinata e sempre più ridimensionata.

Altro duro colpo arrivò nei secoli appena successivi, durante il periodo d’influenza araba, dato che il Corano vietava il consumo di alcool. In questa fase il vino subì una ulteriore battuta d’arresto, che ne provoco il declino ed, in diverse aree, l’abbandono vero e proprio.

Ma nel Medioevo si tornò a dedicare maggior cura al vino, con risultati di produzione sempre migliori, tecniche nuove e qualità superiore. Grande cambiamento fu ad esempio l’aumento del grado alcolico, essendo il vino in precedenza spesso allungato con acqua o con mosto cotto, ed aromatizzato grazie all’aggiunta di spezie e frutta: miele, zenzero, cardamomo, chiodi di garofano, fragole, lamponi, mirtilli o altro ancora.

Con la ripresa delle produzioni e dei mercati, il vino tornò presto ad essere una bevanda di largo consumo, sempre più comune, al punto che quasi tutti poterono ottenerne, senza distinzioni di età e di rango. ­­

Il vino, a questo punto, venne utilizzato come vero e proprio alimento da pasto, non diverso dai piatti tradizionali serviti nelle tavole di tutta Europa, e con la gradevole caratteristica di rappresentare un elemento di socializzazione.

Un grande problema, cui si andò incontro con l’espansione della distribuzione e con l’aumento delle quantità consumate, fu la conservazione, ai fini del trasporto, e del rifornimento.

Questa complicazione, sorta già nel II secolo con la sostituzione delle anfore sigillate con le botti di legno, si prolungò fino al XVII secolo, ossia fino a quando non s’introdusse l’uso delle bottiglie di vetro, ma principalmente del tappo di sughero. Fino ad allora, infatti, le bottiglie venivano chiuse con un tappo di legno avvolto nella stoppa. Inoltre, la bottiglia, all’epoca, veniva utilizzata principalmente per contenere profumi e non era pertanto idonea al trasporto e alla conservazione del vino, soprattutto perché, non contenendo piombo, erano molto fragili.

Altra usanza che al tempo incideva sulla durata e sulla qualità del vino era la pigiatura. L’uva, infatti, continuava ad essere pigiata con i piedi (usanza che continuò nei secoli, fino al nostro, nelle campagne). Solamente le grandi tenute dei nobili e della chiesa a quei tempi disponevano di torchi per estrarre il mosto rimasto nelle vinacce e capace quindi, essendo più ricco di tannini e di colore, di godere di un più lungo invecchiamento.

Per cercare di mettere ordine nella gestione e nell’amministrazione delle terre, degli animali e della giustizia, ormai soggetti a numerosi mutamenti, e talvolta riadattati ad usi e consuetudini, Carlo Magno (768-814) emanò il Capitulare de Villis (scritto tra il 770 e l’800) con lo scopo ambizioso di riordinare l’intero ed immenso patrimonio del sovrano carolingio creando regole e leggi che portassero ordine. Anche il mondo del vino, pertanto, fu disciplinato, e si introdussero regole per la vinificazione con la pulizia dei vasi vinari e con la torchiatura dell’uva (fino a quel momento si era sempre pigiata coi piedi).

A seguito di una generale ri-generazione dei terreni e della viticoltura, iniziò un processo di vera e propria “cultura della viticoltura” basata su quelle che oggi definiremmo le “best practice” per ottenere un prodotto qualitativamente sempre migliore. I terreni “vitati”, infatti, iniziarono ad essere recintati in quanto le viti erano spesso oggetto delle attenzioni di animali o ladri, favorendo una coltivazione non troppo estesa e con una resa importante e di qualità. In questo modo la vigna diveniva più produttiva e le viti potate crescevano come piccoli alberelli. Il vignaiolo, perciò, divenne ben presto un vero e proprio mestiere, uno specialista che in breve tempo imparò a dedicarsi con diligenza e pazienza distinguendo le diverse fasi cruciali perché la vite crescesse nel miglior modo.

Fu, però, nel Basso Medioevo che il vino fece il suo primo vero salto di qualità. Tra il Duecento e il Trecento, in piena età comunale – mentre le città fiorivano grazie al commercio – si ottennero i primi veri risultati di un certo rilievo in merito a processi come la vinificazione separata delle uve bianche e rosse, la vinificazione delle uve appassite, la variabilità della durata della macerazione delle vinacce, e l’introduzione di particolari filtri a sacco. Questo agevolò notevolmente maggiori consumi e, di conseguenza, proprio una sensibile crescita del commercio: a Firenze nel 1280 pare infatti che circolassero in entrata tra i 250.000 e 300.000 ettolitri di vino, una quantità enorme per l’epoca!

Venezia poi diventò il più grande mercato di vini del Mediterraneo. Essa non si limitava a importare e commercializzare Malvasia, ma aveva anche il monopolio dei vini dell’Adriatico e dell’entroterra veneziano. Nella Dalmazia, a Istria, a Fiume e nelle isole circostanti era molto diffusa la malvasia e la pratica di appassire le uve per ottenere vini alcolici e dolci.

Il 1453 segnò, però, la caduta dell’Impero romano d’Oriente e, da quel momento, il monopolio veneziano sul commercio del vino dolce nel Mediterraneo orientale fu in pericolo. Ma proprio grazie al blocco dell’importazione dall’Oriente da parte dei Turchi, giunse da parte dei veneziani una grande domanda di vino proveniente direttamente dalla Repubblica, il ché favorì l’impianto di nuovi vigneti nei territori intorno a Verona, a Padova e nel Friuli, a Bardolino, a Soave e nella Valpolicella dove venne consigliato l’appassimento delle uve per produrre vini ad elevata gradazione alcolica.

Si diffuse così nel Veneto la tecnica dell’appassimento delle uve e la produzione dei “Recioto“, ossia dei vini dolci bianchi (Recioto di Soave) e rossi (Recioto della Valpolicella), a sapore semplice, ottenuti dalla vinificazione delle “recie” (le ali dei grappoli), che presentavano una maggiore concentrazione zuccherina.

Anche a Firenze, verso la fine del 1400 le nobili famiglie di banchieri (come gli Antinori e i Frescobaldi) cominciarono a interessarsi al commercio del vino, proprio in contrapposizione al monopolio di Venezia nella Penisola, ma anche nei confronti di Spagna e Portogallo, che commerciavano i vini dolci, all’epoca preferiti dai consumatori, e dunque più diffusi e redditizi.

La Spagna infatti esportava in Inghilterra principalmente il vino dolce e di elevata gradazione alcolica (sack o seck,), che si produceva prima dell’attuale sherry, nonché il vino delle Canarie, dove gli spagnoli, alla fine del 1400 avevano piantato viti portate da Creta.

Venezia, a quel punto, non era più in grado di assicurare il suo commercio con l’Oriente e di garantire ai mercati dell’Europa – in particolare l’Inghilterra – il rifornimento di vini dolci e di altri tipi di vino. Di ciò si avvantaggiarono, a fasi alterne, gli spagnoli (legati al Regno d’Inghilterra anche da intrecci matrimoniali tra le casate reali) ed il Portogallo, che sfruttò l’isola di Madeira, scoperta nel 1418, per introdurre varietà di viti provenienti dalle isole di Cipro e di Candia, i cui vini erano già molto apprezzati e che ebbero ancora maggior fortuna a seguito della caduta di Cipro sotto il dominio turco.

Ma fu proprio a partire dagli scambi indirizzati dal sud verso il nord che emerse una vera e propria flotta mercantile, capace di fare del commercio la propria arma vincente e specializzazione per i secoli a venire. Si trattava dell’Olanda. Rotterdam in particolare era diventato il porto principale e gli olandesi erano in grado di comprare vino da chiunque – persino dalla Spagna con la quale erano in guerra – riuscendo addirittura a mantenere rapporti commerciali con i Turchi, rifornendosi di vino greco. Da ottimi commercianti, infatti, gli olandesi iniziarono ad interessarsi a tutte le bevande alcoliche, accrescendo l’interesse per i vini ordinari da distillare, come il “brandy”. Ricercavano pertanto zone viticole nelle quali, oltre a trovare vini ordinari in quantità e a buon mercato, fosse possibile reperire con facilità legna da usare come combustibile per gli alambicchi e per costruire botti: ciò farà in Francia la fortuna di zone quali l’Armagnac e la Charante (in cui si produce il Cognac).

E mentre l’Europa “fermentava” – ed è proprio il caso di dirlo – vi erano luoghi all’interno dei quali, ben lontani da dinamiche di commerci e guerre, proliferavano lo studio ed il perfezionamento dei vini e della vinificazione. Queste enclave erano i Monasteri. Fu proprio la Chiesa cattolica, infatti, ed in particolar modo i monaci benedettini e cistercensi, a favorire il ritorno alla produzione e al consumo di vino realizzando, nelle abbazie, scuole di vinificazione e centri di coltivazione e produzione. Queste opere erano giustificate dalla necessità di produrre il vino schietto necessario alla celebrazione eucaristica.

Ma questa è un’altra Storia, un passo successivo della Divi(g)na Commedia, che ci parlerà dei Monaci, della Chiesa Cattolica e dell’Eucarestia, un trittico fondamentale per lo sviluppo del vino in Europa…

di Fabrizio Spaolonzi, all rights reserved

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