IL VERO, IL BRUTTO E IL TROPPO. L’ELOGIO DELL’ARTE AI TEMPI DI FACEBOOK

di Let It D.

IL VERO, IL BRUTTO E IL TROPPO. L’ELOGIO DELL’ARTE AI TEMPI DI FACEBOOK

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IL VERO, IL BRUTTO E IL TROPPO. L’ELOGIO DELL’ARTE AI TEMPI DI FACEBOOK

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Nel percorso di riscoperta del mio passato, una domenica come tante, neanche troppo felice in merito ad alcune recenti vicissitudini sentimentali, mi sono ritrovata a pranzo con una vecchia amica, una mente acuta e brillante. Entrambe ironizzavamo circa il fatto che alcuni amici, nelle foto pubblicate sui più noti social network, sono soliti apparire irrimediabilmente e sorprendentemente bellissimi in ogni occasione. Ponendo come costante l’aiuto di madre natura, il fatto è assai strano. Ciò che più mi stupisce è che, a parità di filtri, di pixel e di ottimizzazioni delle immagini (sono convinta anche a parità di numero di tentativi di scatto), loro nelle foto sono sempre splendidi e luminosi. Belli e perfetti; circondati da persone a loro volta impeccabili, in luoghi dalla magica atmosfera, mai banali, stranamente mai riconoscibili. Non riesco a vedere difetti nel corpo, nell’acconciatura o nell’abbigliamento, né sbavature nell’espressione, timidezza, giammai goffaggine. Sono semplicemente meravigliosi. E lo sono in ogni singolo scatto, in un crescendo di sorrisi, di ammiccamenti e, via via, di commenti entusiasti e di piacevolezze diffuse. Pertanto, con la mia amica – che come me condivide il nefasto destino di apparire nella bruta imperfezione e spesso mancanza di stile nonostante una materia prima affatto spiacevole – ci siamo trovate a riflettere sull’azione di questo strano meccanismo. Parlando, sono inciampata in un pensiero.

Mi sono tornate alla mente le parole di un mio anziano professore il quale, durante una lezione di psicoanalisi, mentre guardavamo alcune foto di pazienti cosiddette “isteriche” ai tempi di Charcot alla Salpêtrière, sosteneva che nelle foto venga impresso l’inconscio delle persone. E che tanto più sono presenti tormenti ed affanni, tanto più le foto saranno belle e affascineranno gli osservatori. Tutte queste donne isteriche erano, di fatto, bellissime. Avevano un’eleganza, una sinuosità ed una leggerezza tali da farle assomigliare a delle sante. O a delle regine. Erano belle accidenti. Ma erano donne che soffrivano, che cercavano una cura ai loro mali. Non so più allora cos’è la bellezza. Mi confonde il fatto che essa contempli la paura, il sacro, la vita, la morte, e persino Dio. Mi fa trasalire la consapevolezza che essa sia problematica e contorta, buia e attraente come un buco nero. Ma questo pensiero non collima con ciò che vedo nelle foto dei miei amici bellissimi. Non sento questo movimento del cuore; non mi nascono dubbi e pensieri. A parte circa la bravura del mio parrucchiere. Dev’esserci altro. Ciò che io vedo e sento, nelle foto perfette dei miei amici da copertina, è una cosa fredda. Ciò che la mia mente produce è una specie di sinestesia. Il freddo di ciò che appare bello ma che non puoi mai toccare, di ciò che è ingannevolmente di tutti ma a tutti è precluso. La distanza, la lontananza, la tensione, l’artefatto, la falsità.

Ci sono arrivata. Era questa l’idea che avevo in mente. La freddezza di una cosa falsa. Questo è ciò che vedo in quelle foto. La presentificazione di un’idea di persona bene adattata, ben vestita, educata, ricca e alla moda. E mi viene da pensare se ciò che le foto hanno immortalato non sia proprio questo: il Falso Sé. Lo Psicoanalista Donald Winnicott ha per primo concettualizzato l’esistenza di questa istanza, laddove sia presente una buona integrazione con l’ambiente, una capacità di intercettare le esigenze dell’altro per adeguarvisi in assenza però di autenticità, di spontaneità e di creatività nelle relazioni con l’Altro e nella manifestazione della propria individualità. Lo sviluppo di un Falso Sé può trarre in inganno l’ambiente riguardo alla salute e all’integrità psicofisica dell’individuo e, solitamente, induce a pensare che sia tutto bello e perfetto. La grande madre cultura che oggi appare quanto mai arrabbiata e richiedente, perfezionista ed esigente, forse non è “sufficientemente buona”, così come Winnicott intendeva dovesse essere una madre. Ella non è in grado di rispecchiare adeguatamente l’individuo il quale si sottomette alle di lei regole e viene indotto ad essere compiacente e a sviluppare un atteggiamento che lo renda esattamente uguale a tutti gli altri. Egli diviene il “Falso Sè”, si convince a tal punto di essere tutte quelle agognate qualità che bene rispondono alle altrui richieste di desiderabilità e di gradevolezza che finisce per incarnarle tutte, come si indossa la maschera raffigurante il nostro stesso volto. Quell’individuo gode, gioca, immagina e pensa solo illusoriamente, lontano dalla sua verità, senza parte e, nemmeno a dirlo, senz’arte.

Non si vuole attribuire una psicopatologia a tutti i miei bellissimi amici sia chiaro, come non si vuole generalizzare la questione o caricarla di un significato che non ha o che non intende avere. E’ solo uno spunto che si è presentato alla mia mente, un tentativo di esemplificare uno sguardo nuovo, senza grandi pretese. Assumendo quindi per buona la mia riflessione, ripenso alle parole del mio professore … perché ora, queste foto dei miei bellissimi amici che vedo scorrere su Facebook non mi mostrano il loro inconscio, i loro tormenti e le loro passioni, le loro viltà e i loro reconditi desideri ma solo la luccicante patina di una disadorna perfezione? Dopo qualche esitazione, alzo gli occhi, e la risposta è poco più su. È senz’arte. E’ forse solo un’affermazione del bisogno narcisistico ma legittimo e comune a tutti, di essere guardati senza essere visti. Sono le foto scattate nella falsa espressione di sé, le foto che a tutti appaiono perfette, senza i segni dell’anima.

Oscar Wilde ne “Il Ritratto di Dorian Grey” svela la bruttezza che c’è nel cuore del protagonista, come se il dipinto fosse lo specchio della sua verità interiore, dei suoi sentimenti più profondi e rovinosi. Non solo di quelli di Dorian. Anche di quelli del pittore Basil Hallward. Non è un caso che il pittore dica a Lord Henry che lo incita ad esporre il suo bel lavoro: “proprio non posso esporlo. Ci ho messo dentro troppo di me stesso”. Così, quando Dorian viene in possesso del suo ritratto, non solo vede su esso rivelate le sue nefandezze ed il suo marciume interiore, ma anche quelli del pittore Hallward.

Jack Torrance di Shining è proprio mentre scrive un romanzo che scopre la sua follia. La scrittura rivela la parte più oscura e pericolosa del suo animo. Nella pagine del libro egli non può fingere: “All work and no play makes Jack a dull boy”.

In questo senso l’arte toglie il velo di falsità che copre la mente degli uomini e “riduce tutte le cose a coraggiosa chiarezza”. Il dipinto svela la verità e la verità è necessariamente bella, anche quando è brutta, alla maniera di Keats. Alla fine del testo di Wilde, infatti, il dipinto torna di nuovo quello di un giovane ed aitante ragazzo e Danny, il brillante figlio di Jack Torrance, rimane vivo. Solo l’arte rende necessaria la chiarezza e la verità, stana il marcio rendendolo visibile, portandolo alla corrosione dell’aria e all’attacco dei microbi. Ma anche esponendolo – potenzialmente – alla benevolenza di qualcuno che potrà guardarlo senza paura e cullarlo come fosse un germoglio di riso. Così il brutto diventa bello e allo stesso tempo il bello è brutto, senza il pensiero che ingabbia e senza il timore di essere buttati via. Senza il bisogno di sacrificare la libertà per aderire inconsciamente alle richieste di altri.

La verità è il contrario della bruttezza. Non la bellezza. La bellezza è ciò che è vero. Un sillogismo in cui si afferma ciò che si nega. Se si mantiene la mente aperta e il cuore coraggioso.

di Let it D.

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