Il nostro bisogno di relazioni

di Cara Futura Rigby

Il nostro bisogno di relazioni

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Il nostro bisogno di relazioni

di Cara Futura Rigby

“Che te preparo Margherì?” “Un caffè macchiato, grazie. Ma io non mi chiamo Margherita.”

“Amore mio, ma tu sei un fiore, vuoi che te chiamo Crisantemo?”Dice Stefano del bar. Parla romano Stefano: con quell’inflessione morbida e calda che ti accarezza fino dentro le ossa.È l’unico aperto, oggi, in mezzo alle serrande silenziose e cieche qui al mercato del mio quartiere. E io, capirai, mica lo penso che lui e gli altri sono tutta una lobby di adulatori pagati dalla mia analista, che quando è in vacanza, si premunisce in anticipo sui miei giorni depressi e paga questi figuranti a farmi dei complimenti. Brava, dottoressa. No, io non lo penso che sono una lobby e loro sono il mio personale Truman Show dentro al Gra. Io voglio crederci spudoratamente che c’è qualcuno che mi vuole bene, voglio crederci al fatto che qualcuno si ricordi di me: se qualcuno mi dà importanza, anche quella minima e irrisoria, chi sono io per oppormi? Entro in un brodo di giuggiole e sticazzi, ci credo davvero. “Me lo ridici che sono una margherita, Ste?” “Certo, amore mio.” Io e Stefano ci guardiamo sconsolatamente, ognuno preso dalla propria vita di un primo novembre: lui con il pensiero di rimanere aperto, forse suo malgrado, io con una pianta di lattuga sotto il braccio avvolta nella carta. Me la faccio avvolgere nella carta e non confezionare nella plastica perchè è da questa estate che affronto i miei giorni con la mia serenità positiva di pensieri di morte, questa volta annodati intorno al tema dell’ambiente, convinta che se non ci adoperiamo collettivamente per un uso consapevole delle risorse, mi sa che abbiamo i giorni contati. E allora ho provato a ridurre il consumo di plastica, mi porto una shopper di tela e in sua assenza uso la carta. E sì, ho promesso a me stessa di evitarmi tutti i beni superflui di cui onestamente non ho necessità. Ho provato a ridurre i consumi in generale. E mi sono accorta non essere semplice. Mi sono trovata a riflettere sulla sovrapproduzione, un giorno d’estate, all’inizio dei saldi. In alcuni centri commerciali, negli store di alcuni marchi, osservavo i capi di abbigliamento gettati a terra e le persone, colte dalla frenesia, passarci sopra. Ricordo che studiai la sovrapproduzione, teorizzata già da metà ‘800, quando ero ancora iscritta alla facoltà di Economia. In quel giorno di saldi, cosi convulso e incontenibile, mi trovai a pensare che la sovrapproduzione, per quanto fosse un fenomeno concreto che interessasse la sola merce, non avesse invece piuttosto degli effetti anche da un punto di vista psichico, quello per cui sei indotto a pensare che sei sempre mancante di qualcosa, che sei sempre in procinto di rimanere senza beni e sentirai il bisogno di aggiungerne a dismisura anche se ne hai già terribilmente in eccesso. È l’altro a dirti: “Oh tesoro, di questo vestito ne hai un sacco bisogno.” E tu non te lo chiedi più se è vero o no, non te lo chiedi più chi sei o cosa desideri, non ti soffermi più ad interrogarti sulle tue cose. Ci pensa l’altro a pensare per tuo conto e, alla fine, non te la fai più questa domanda. Vai di fretta e “Va bene sì, dai lo prendo, che cambia?” L’altro accanto a te, a poco a poco, diventa qualcuno con cui competere nel possesso e non più qualcuno con cui potrai spartire il senso di una vita basata invece su altro: sui rapporti umani, sui legami, sulle relazioni di reciproco aiuto. L’altro non è più qualcuno in grado di donare, ma invece qualcuno che ti può derubare, l’altro non è qualcuno con cui condividere pensieri e riflessioni, ma piuttosto un competitor, l’altro non è un alleato, ma qualcuno da cui guardarsi.  L’altro si mangia le tue domande, si mangia le tue cose. Tu devi arrivare prima di lui e fondamentalmente, benchè entrambi avrete più beni, non potrete che restare invece via via più poveri, soprattutto di legami e cose umane.È una questione di bisogni, di rapporto con l’altro e, quindi forse, non di merce. A ripensarci, ritengo che la questione sia ben più complicata e, anzi, quasi mi vergogno per la superficialità osservativa con cui mi trovo a riflettere su questo. In ogni caso, intanto, da quel giorno mi impegnai in questo piccolo fioretto: San Leonardo Di Caprio, protettore di noi acquirenti, aiutami a non comprare nuovi vestiti per un anno ed ogni volta che mi troverò a desiderare qualcosa, mandami dal cielo Alessandro Borghi a distrarmi e io giuro che mi fermerò. Farò lo sforzo di chiedermi se ho bisogno di quel vestito o meno, non di Alessandro Borghi, sia chiaro. E’ un primo novembre, sono al mercato e il banco 22 ha qualche capo in sconto. Costa tanto il banco 22 di solito e io, per questo, non ci compro mai. Ma oggi fa gli sconti ed ha quel cazzo di costumino intero meraviglioso con la stampa con i cocomeri che penzola e mi guarda. E’ un costumino a metà prezzo lì in vendita anche se siamo alle soglie dell’inverno. Primo, non guardarmi. E poi secondo, dico io, Santo Cielo, ma perchè mi fai questo? Perchè? E perchè adesso non compare Alessandro Borghi? Io volevo passare inerme questo giorno, fare finta di essere morta, ciabattare per il mio quartiere con la massima aspirazione di pensare al perchè la Sandrelli ha lasciato Gino Paoli. E invece tu mi metti davanti il costumino, mi fai venire la nostalgia dell’estate e mi conduci a mettere in discussione il mio impegno a non comprare oggetti inutili. Dico no, faccio lo sforzo disumano di voltarmi e rinuncio ad un bisogno che bisogno non è, essendo non necessario. “Dai Chicca, provaci, rinuncia.” Mi allontano dal banco e fuggo dal richiamo. A tratti mi sembra uno sforzo più arduo di quanto pensato. “Amore mio, che fai ripassi qui davanti?” mi dice Stefano che mi vede risbucare da dietro l’angolo tipo il maggiordomo di Lara Croft. I cocomeretti della vita mi fissano da dietro. Sento il loro fiato sul collo. “Me la ridici la storia del fiore, Ste?” “Certo che te la ridico, Margherì. Anzi, oggi che non c’è nessuno, ti metto pure Bennato, va bene? Vieni qui, Margherì, parliamo un po’ “Mi sorride Stefano. E io dimentico il costume.

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