Il racconto del mio
23 maggio

"Il mio 23 maggio
e quello che è diventato oggi"

L'anniversario della morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta
è ormai il cerimoniale di un atto dovuto

di Roberta Serio
di Redazione The Freak

Il racconto del mio
23 maggio

"Il mio 23 maggio
e quello che è diventato oggi"

"Il mio 23 maggio
e quello che è diventato oggi"

di Roberta Serio
di Redazione The Freak
23 Maggio

Il racconto del mio
23 maggio

"Il mio 23 maggio
e quello che è diventato oggi"

L'anniversario della morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta
è ormai il cerimoniale di un atto dovuto

di Redazione The Freak
di Roberta Serio

“Oggi faccio servizio di scorta al giudice Falcone, me lo prepari il vestito grigio, Francè?”. Per diversi mesi questa era la frase che si ripeteva in casa mia, sembrava quasi un rituale di vestizione orientale, accadeva sempre prima che mio padre prendesse servizio, agente di polizia allora in forze al nucleo scorte.

Era il 1990 e l’aria che si respirava a Palermo aveva già da tempo un odore “plumbeo”, pesante. Nelle nostre orecchie ingenue di bambini queste parole risuonavano come in una litania a cui non facevamo più caso, così come non facevamo più caso a quel suono, il cicalìo incessante delle radiotrasmittenti di mio padre, ma anche di mia madre, da poco agente di Polizia Municipale. 

Entrambi dunque sul campo mentre a Palermo si susseguivano notizie di cronaca atroci. Una tensione che ci accompagnò almeno per due anni, fino al 1992.

Intanto però mio padre si spostò dal nucleo scorte (quello di Falcone, per intederci) alla Digos. Una fortuna, aggiungo a posteriori.

Arrivò così quel pomeriggio del 23 Maggio 1992. Mia madre era a lavoro, stava armeggiando con la sua pazienza per regolare la viabilità nelle vicinanze di via Belgio, la strada che consente l’imbocco proprio all’autostrada in direzione Punta Raisi.

Noi, eravamo a casa di mia nonna paterna, eravamo lì con mio padre, attendevamo con impazienza che mia madre finisse il turno. Ma un certo punto dall’alto di via Cappuccini, affacciato al balcone, con una sigaretta tra i baffi, fu proprio lui a notare curiosamente la presenza di un elicottero sospeso e fermo nell’aria in direzione nord.

La tv a basso volume, presenza delicata e costante compagna dei miei nonni, sussurrava qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare quel giorno.

A un certo punto alzammo il volume e capimmo tutto. Il primo pensiero andò subito a dove fosse mia mamma.

D’altronde senza smartphone, senza segnalatori di emergenza sui social, senza wi-fi, trovarsi in una situazione d’emergenza senza poter comunicare coi propri cari trenta anni fa era la norma, per carità, ma in quell’occasione non fu affatto facile.

Fu un tam tam di telefonate tra colleghi delle volanti di mio padre a rassicurarci: “Francesca sta bene”.

La notizia dell’uccisione di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo ed Antonio Montinaro “scosse” enormemente la città tutta, da Capaci, luogo della strage, alla rocca di Monreale, con un’onda d’urto emotiva che fece tremare ogni singolo ciottolo dell’antico basolato urbano.  

Da quel giorno, come due facce della stessa medaglia, cominciò a comparire ineluttabilmente accanto al ricordo di quella strage e di quella immediatamente successiva di via D’Amelio, un’entità chiamata Anti Mafia.

Da bambina degli anni ’90 ne ho vestito in prima persona, ed orgogliosamente, la maglia: ogni occasione era idonea nelle scuole elementari per imbandire palloncini, canzoncine, tricolore, ospiti illustri e noi bambini stessi, con gli occhi lucidi di commozione, forse gli unici a crederci veramente.

Ricordo che un giorno, in quarta elementare, accogliemmo nell’atrio esterno della nostra scuola, la Montegrappa, la vedova di uno degli  agenti della scorta vittima della strage di Capaci.

Ricordo la folla, il mormorio, i fotografi, il sole, il caldo, il grembiule sudato, la maestra che ci invita a fare silenzio mentre parlano gli ospiti “importanti” e le presenze, tante presenze, che poi divennero in alcuni casi, delle mere passerelle.

Il dolore per la commemorazione ha ceduto il passo, negli anni, purtroppo al cerimoniale di un atto dovuto, scevro della spinta emotiva che ardeva trenta anni fa, che bruciava come una ferita al sale ma che, inevitabilmente si è esaurita.

E adesso è persino divenuta – la cronaca più recente ce lo testimonia – la maschera beffarda indossata da figure istituzionali dietro alla quale compiere le più meschine gesta.

Magistrati, dirigenti scolastici, in prima fila davanti ai microfoni della stampa, sempre pronti ad elargire sorrisi d’occasione ed a spendere due parole contro la Mafia, ne sono tristemente diventati i testimonial, nel più desolante ed avvilente momento di commemorazione.

3 risposte

  1. Bravissima Roberta. Questa è la triste e cruda realtà.
    Uomini come Falcone e Borsellino hanno sacrificato la loro vita per le loro idee. Ma mentre camminavano non facevano tanta pubblicità mediatica.
    Portare dentro il cuore il ricordo di una persona cara non significa dimenticare anzi……..

    Grazie Robi.

  2. Complimenti .Ho letto tutto ad un fiato, trent’anni fa anch’io mi trovavo a Palermo, ricordo lo sconforto ,lo stupore per l’accaduto. Ripetutosi appena 2mesi dopo. Ricordo le parole commosse di Napolitano,….ma era tanto tempo fa’! Ora tutto è diventato “farsa” e semplicemente commemorazione. Non trovo risposta alla mia domanda: ne è valsa la pena sacrificare tutte quelle vite ( non solo dei giudici ,ricordiamo anche p.puglisi ecc)….. adesso chi ci salverà ?

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