Il meglio di Aprile: Massimo Pericolo – Scialla semper

di Stefano Frisenna

Il meglio di Aprile: Massimo Pericolo – Scialla semper

di Stefano Frisenna

Il meglio di Aprile: Massimo Pericolo – Scialla semper

di Stefano Frisenna

Essere ugualmente diversi o diversamente uguali?

Quello che può sembrare uno scioglilingua rappresenta in realtà le due fasi principali attraversate da ogni contro-cultura di successo: da quelle letterarie, al mondo della moda, passando ovviamente per le correnti musicali. Prendiamo per esempio il rock dei ‘60s, il punk nei ’70s o più recentemente l’elettronica dei ’90s. Tutti questi generi sono accomunati dal fatto di essere nati come risposta “alternativa” alla scena mainstream, portando dei gruppi di outcast della società a potersi differenziare liberamente senza rimanere isolati, sentendosi per l’appunto parte di un gruppo di ugualmente diversi.

Non si può negare come tutti questi movimenti abbiano quindi permesso a giovani di varie generazioni di potersi vestire in modo originale, cantando canzoni differenti da quelle proposte in radio, in cui identificarsi e ritrovare le loro tematiche. Anche gli stessi artisti, inoltre, potevano finalmente raggiungere un pubblico più grande e proporre nuovi modi di fare musica, sfruttando l’onda lunga del successo commerciale della loro nicchia.

Tra queste romantiche favole di Cenerentole musicali , spicca sicuramente la storia dell’hip hop. Non basterebbe un libro per parlare del legame tra “coscienza politica” e musica, della voglia di riscatto di classi sociali dimenticate, della ribalta pubblica di minoranze etniche fino ad allora ai margini della scena artistica. Tutti aspetti che sono parte integrante del DNA di questa corrente. Riassumendo: l’hip hop è stata il caso estremo della risalita alla ribalta dei “diversi” che si son finalmente potuti sentire parte di un gruppo, sopratutto negli USA. Anche in Italia questo genere è riuscito, con le giuste proporzioni, a portare alla ribalta degli argomenti che erano veri e propri tabù nel mainstream musicale come la vita da strada, i rapporti controversi con le droghe o la sfiducia nelle autorità. Tutti argomenti quindi che, per la prima volta, si trovarono a “ballare” nelle serate di gala della musica italiana, come Cenerentola una volta indossata la scarpetta.

Sfortunatamente però, l’hip hop nostrano ha emulato troppo bene la storia Disney. E così passata la notte , l’incantesimo si è spezzato.

Questa non è e non vuole essere una critica all’intera scena italiana, in cui ci son sempre stati artisti validi, soprattutto liricamente. E non vuole neanche punzecchiare la ribalta dell’aspetto “strumentale”, che ha potuto vedere l’innovazione dal lato ritmico con il boom della trap, grazie alla quale il genere ha toccato vette di approvazione inimmaginabili pochi anni fa. Il problema è che proprio tale boom, escludendo pochi casi, ha garantito si un innalzamento del livello delle produzioni ma allo stesso tempo ha portato ad una eccessiva omogenizzazione dei contenuti.

Un genere che era nato come valvola di sfogo per gente senza alternativa è divenuto invece un brand standardizzato. Sostanzialmente è passata in secondo piano l’importanza del testo, rispetto a quella della ritmica, portando a dimenticarsi delle proprie origini come chiave di riscatto sociale per i “neri di quartiere”, come unica via per il denaro senza passare dalla criminalità. Sempre di più, anzi, si hanno figure assolutamente non appartenenti ai ceti da cui il genere era nato, che cantano di un mondo a cui non appartengono.

In altre parole, l’hip hop è divenuto per molti come un tatuaggio in ideogrammi cinesi, ci vogliono soltanto due secondi a farlo per sentirsi diversi dall’uomo qualunque.

Il problema è che, poi, questa continua ricerca della distinzione dalla massa ha portato alla creazione di una massa altrettanto grande: quella dei diversamente uguali. Un genere che era nato come underground , è diventato la cultura principale, il mainstream. I membri di questa sottocultura, convinti di fuggire dall’omogeneità, sono caduti in realtà in un’altra omogeneità, musicale ed estetica.

Questo fino al 12 aprile 2019, un giorno in cui il rap italiano ha viaggiato indietro nel tempo, in cui qualcuno ha avuto il coraggio di riportare l’orologio prima di mezzanotte, per far tornare Cenerentola la principessa innocente che era. Questo Marty Mcfly nostrano ha un nome e cognome: Alessandro Vanetti, alias Massimo Pericolo. Il 12 aprile è il giorno di uscita di “Scialla semper”: il suo primo album, una scossa allo status quo della scena. Il titolo riprende il nome di un’operazione antidroga del 2014 che portò il cantante a perdere due anni della sua vita tra carcere e domiciliari, ma proprio da questi due anni scaturisce l’ispirazione artistica per quest’opera. Già da questa breve premessa si può notare una caratteristica ben distintiva del rapper: lui non canta di risse, criminalità e notti selvagge come atti di machismo, fatti consapevolmente per dimostrare di essere dei veri figli della strada. In questa gabbia lui ci ha davvero vissuto, questa vita è stata sua dalla nascita. Ovviamente un album concepito in 7 metri quadri guardando il cielo da delle sbarre non può essere romantico e sereno. Anzi, si può dire che quest’album è come un cane impazzito per la rabbia, pronto a lanciarsi contro chiunque si avvicini abbastanza da rischiare la propria vita.

Il microcosmo di “Scialla semper” è tutto rinchiuso nei 2.48 minuti iniziali di “7 miliardi”, pezzo trainante dell’album .
Il loop in cui l’ascoltatore è trascinato è uguale per tutti (ascolto più o ascolto meno): si parte dicendo “che è sta cafonata” – piccola fermata al livello in cui “ah però il ritmo non è malissimo”- finendo ad iscriversi ad un corso di pugilato per scaricare l’adrenalina. A detta dello stesso autore l’idea ricercata è esattamente di esprimere un concetto simile al “primo pugno tirato nella rissa”. Massimo Pericolo non vuole empatia con il grande pubblico, lui parla proprio a quella minoranza di “ugualmente diversi”, come facevano tanti anni fa i rapper della old school americana. La sua vera bravura però sta nell’attirare l’interesse degli ascoltatori (come di chi scrive d’altronde) parte della società mainstream, facendoli rendere conto dell’esistenza di questo sottobosco.

Forse inconsapevolmente, il cantante riesce ad esprimere perfettamente in musica “l’ideale dell’ostrica” dei Malavoglia: finchè i poveri, le classi meno abbienti, si accontentano di ciò che hanno, sono al sicuro dalle avversità della vita. I veri problemi sorgono quando alcuni di questi cercano un cambiamento rapido, desiderano una scorciatoia per una condizione migliore senza comunque accettare di essere parte della società. Un gruppo di gente che insegue ideali materiali come “voglio fare la spesa da Gucci, mica fare la spesa coi punti” senza però fregarsene degli avvenimenti che li circonda (“Fotte un cazzo di niente, non so neanche chi è il Presidente”), in un’estremizzazione del denaro come unico aspetto che conta per valutare una persona.

La produzione di altissimo livello è firmata Crookers e Nic Sarno

Massimo pericolo è al contempo un figlio del capitalismo e un Mark Renton di Brebbia che “sputa sul tuo mutuo”. Il rapper lombardo non accetta i valori della classe borghese ma allo stesso tempo sognerebbe di averli, perché rappresenta l’insieme di tutto quello che lui non ha potuto avere da ragazzo. Un vortice di “lavatrici, macchine lettori CD e apriscatole elettrici” (Trainspotting) che l’ha aspirato portandolo a cadere in carcere. Proprio questo dualismo tra la cultura dell’apparire e il rinnegare la borghesia era al centro del primo hip hop, un rapporto di amore/odio che l’essere umano ha da sempre verso ciò che non può avere.

Gli altri pezzi dell’album continuano tutti su questa scia di impossibilità alla scalata sociale e della sensazione di sentirsi in trappola di una condizione determinata già dalla nascita. Per esempio abbiamo “Ansia”, il pezzo insieme ad Ugo Borghetti, in cui racconta il tentativo di utilizzare la droga come fuga dalla propria “gabbia”, finendo però per cadere sempre di più nel proprio pozzo: “Fumo l’erba per l’ansia ma c’ho l’ansia per l’erba”. Di nuovo, a prima vista sembrerebbe il classico pezzo “pro-stupefacenti” del mondo rap, mentre prestando attenzione l’artista (forse inconsapevolmente) riesce a parlare oggettivamente di uno dei mezzi più utilizzati per scalare la montagna verso i soldi e la felicità. Quello che sciocca di Massimo Pericolo è proprio il fatto che trasmette la sensazione di aver vissuto davvero quello di cui parla, e non invece di star tentando di utilizzare argomenti non propri ma raccontati da terzi.

L’interessante video-intervista rilasciata a Noisey

Il terzo pezzo, “Cocco”, parla di un’altra possibile via di fuga dalla sua condizione di miseria: le donne e l’amore. E ovviamente, ancora una volta, l’amore per Massimo Pericolo non è un diamante raffinato, ma piuttosto una pietra grezza nel fango, un amore che quando delude porta ancora una volta all’utilizzo di sostanze. E anche qui sorprende come Pericolo, nonostante le rime crude e volgari, non canti delle sostanze come mezzi per divertirsi, ma come strumenti di fuga dalle continue delusioni della sua vita.

Arriviamo cosi al quarto pezzo, “Sabbie d’oro”, altro capolavoro dell’album: si ritorna ancora una volta al rapporto controverso col capitalismo. Da un lato Massimo Pericolo dice: “volevo i soldi e sono andato fino in fondo”, con l’illegalità rimasta come ultima possibilità per soddisfare il suo egoismo. Allo stesso tempo però risulta emotivamente devastante il verso: “Non c’è una scelta se i bisogni te li impongono”. Anche qui, quindi, il tema è quello del lato oscuro della società, che porta la gente a volere sempre di più, spingendo chi è intrappolato nei ceti più bassi a cadere nella criminalità per soddisfare questi bisogni artificiali creati dal consumismo. In tutto l’album l’artista trasmette proprio questa sensazione di “essere una marionetta”, che non ha scelto tra bene e male ma ha avuto davanti a se solo un’opzione possibile, imposta dal mix inconciliabile tra i valori materiali della società odierna e l’ambiente problematico in cui è cresciuto.

“Sabbie d’oro”, in collaborazione con Generic Animal

Pezzo finale dell’album è “Amici”, una sorta di “Ragazzi della via Brebbia”, un omaggio al gruppo di persone che lo ha aiutato e lo aiuta quotidianamente ad andare avanti. Questo brano sembra essere una vera e propria redenzione del rapper di Varese, che si rende conto di stare davvero bene anche con il poco che ha, circondato da persone che lo rispettano per quello che è.

E non mi sono mai sentito così, Come se nessuno c’ha tutto e io si. Come se non mi fossi mai perso niente, e non avessi più niente da perdere”.

Dopo un giro sulle montagne russe fatte di violenza, povertà e criminalità, questa strofa sottolinea come in realtà MP sia un ragazzo come tanti, nato soltanto nel luogo sbagliato. Una persona che alla fine ha bisogno anch’essa d’umanità, ma che non lo ammetterà mai perché sarebbe un segno di debolezza nella giungla urbana in cui lotta per sopravvivere. Una persona che è finita giustamente in carcere, non per scelta ma quasi costretto perché “voglio solo una vita decente”. Un cantante che porta di nuovo l’hip hop italiano ad essere musica per gli emarginati, gli “ugualmente diversi”.

Un rapper che non è ciò che la scena merita, ma ciò di cui la scena ha bisogno”.

di Stefano Frisenna, all rights reserved

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