Il meglio degli anni ’10 – parte 2. I dieci film del decennio

di Matteo Tarascio Breveglieri

Il meglio degli anni ’10 – parte 2. I dieci film del decennio

di Matteo Tarascio Breveglieri
Il meglio degli anni '10 - parte 2. I dieci film del decennio

Il meglio degli anni ’10 – parte 2. I dieci film del decennio

di Matteo Tarascio Breveglieri

Gli anni ‘10: Trump, la Brexit, il selfie, il #MeToo e tante altre cose. Nel cinema sono stati caratterizzati tendenzialmente da due fenomeni (ok, tre se contiamo A24 e la crescita del cinema indie americano): l’ascesa degli universi interconnessi Marvel – e dei vari emulatori in Universal, Warner Bros e Paramount – e dei servizi di streaming come Netflix e Prime Video quali produttori di pellicole di prestigio. Con riferimento al primo, è interessante che i due film di supereroi che più mi hanno colpito in questi ultimi dieci anni – Logan e Spider-Man – Un nuovo universo  non siano parte del Marvel Cinematic Universe, a riprova che forse una storia funziona meglio se non deve per forza legarsi ad altri 14 filoni narrativi. Per quanto riguarda il secondo, invece, a chi afferma che Netflix rischia di far scomparire i film di nicchia dai cinema, altri risponderebbero che senza il suo finanziamento quelle opere non esisterebbero proprio. Vedremo come andrà a finire.

Prima di tirare le somme e provare ad individuare le dieci pellicole che, secondo me, hanno segnato questo decennio, però, sono necessarie alcune menzioni d’onore: questi titoli, infatti, potrebbero benissimo essere inclusi nella lista dei migliori o meno a seconda di come mi sveglio la mattina. Il nostalgico Chiamami col tuo nome mostra le gioie e i dolori del primo amore, in uno sfondo bucolico sulle note di Sufjan Stevens. Se Leave No Trace è un toccante – ma pur sempre ottimista – ritratto di una persona incapace di stare nella società, Melancholia sembra abbandonarsi al nichilismo cosmico nel suo intimo studio della depressione. Blade Runner 2049 è uno scioccante seguito dell’originale – scioccante anche perché, per certi versi, riesce a superarlo – ed il delizioso Grand Budapest Hotel è in grado bilanciare risate e lacrime meglio di ogni altro film di Wes Anderson. Si potrebbe parlare per ore di ottimi film usciti in questo decennio, ma limitiamoci a questi dieci.

The Social Network – Quando nel lontano 2010 vidi l’ormai iconico poster dell’ultimo film di David Fincher (Se7en, Fight Club), mi chiesi se fosse possibile rendere accattivante una premessa che sembrava così noiosa. E invece, pochi film sono stati in grado di tenermi attaccato allo schermo come questa storia che usa la creazione di Facebook come spunto per un’analisi sulla ricerca della fama e dell’approvazione sociale. Lo stile frenetico e incalzante tipico delle sceneggiature di Aaron Sorkin (Codice d’onore, Steve Jobs) si sposa perfettamente con la recitazione nevrotica di Jesse Eisenberg, e la splendida colonna sonora ansiogena di Trent Reznor e Atticus Ross, in particolare nella fenomenale scena del “tradimento” di Mark. L’origin story da supercattivo di Mark Zuckerberg mostra un ragazzo che, pur dicendo di essere al di sopra di queste cose, non vuole altro che essere popolare e che quindi crea un social network, il social network, per costringere la gente a dargli l’attenzione e l’adorazione che pensa di meritare. E così facendo, perde le uniche persone che effettivamente lo apprezzavano per quello che era.

Inside Out – La Pixar ha sempre cercato di creare film che potessero piacere a bambini ma che diano qualcosa di più agli adulti che li guardano. Solo negli ultimi 10 anni, ha parlato dell’inevitabilità del cambiamento in Toy Story 3, di come i nostri cari che non ci sono più sopravvivano in realtà per sempre tramite le nostre memorie in Coco, di cosa fare quando crediamo di non avere più uno scopo in Toy Story 4, e di molti altri temi, più o meno deprimenti. Tra tutti, il tema che più mi è rimasto impresso è quello di Inside Out, che descrive la tristezza come un’emozione necessaria al pari di tutte le altre, da cui non si deve cercare di fuggire. E che un film “per bambini” abbia questo significato è ancora più sorprendente considerando la martellante allegria della stragrande maggioranza dell’intrattenimento di massa.

Whiplash – Quanto siamo disposti a sacrificare di noi stessi, fisicamente e mentalmente, per creare arte? È meglio una morte prematura da artista o una vita lunga e tranquilla? Queste sono le domande centrali della prima pellicola di Damien Chazelle (Oscar per Miglior Regia per La La Land, First Man). La storia di un giovane studente di batteria jazz e la fissa del suo mentore nel trovare il prossimo Charlie Parker a qualsiasi costo è un’affascinante analisi della ricerca della perfezione artistica e di quanto sia sottile la differenza tra passione ed ossessione. Il montaggio e i movimenti della cinepresa calibrati a tempo di musica aiutano ad aumentare la tensione fino al finale più elettrizzante e catartico della scorsa decade. Estenuante.

L’atto di uccidere (The Act of Killing) – Pochi film riescono ad impressionarmi quanto un documentario ben fatto. Il perché è ovvio: so che quello che sto guardando è vero. Le reazioni che il regista riprende sono genuine, le emozioni sono autentiche e i soggetti sono persone effettivamente esistenti. Ed è proprio questo che rende guardare L’atto di uccidere – di Joshua Oppenheimer – così mozzafiato. Il regista riesce infatti a scovare uno dei responsabili della purga anticomunista avvenuta in Indonesia nel ‘65 e lo convince a raccontare come ha trucidato centinaia di persone. Il protagonista non solo l’ha fatta franca, ma lui e tutti i suoi complici sono stati premiati per questo massacro, essendo anzi orgogliosi di aver “liberato” il paese dai dissidenti politici. Oppenheimer li invita a rimettere in scena le varie uccisioni, lasciando che siano loro a scrivere la sceneggiatura, il genere – ganster, musical, western – e che interpretino se stessi e le proprie vittime. E quando, infine, il momento di introspezione inesorabilmente arriva anche per il peggior carnefice, Oppenheimer è lì, inflessibile, a filmare. Il risultato è qualcosa di vero, terrificante e profondamente umano.

La Grande Bellezza – Uno scrittore che non scrive da anni, il “re dei mondani” che crea stili e tendenze, che è alla ricerca della semplice bellezza del primo amore ormai perso. Il Jep Gambardella di Toni Servillo è una rappresentazione della gloria passata di Roma e del suo attuale squallore, dello splendore che affascina chiunque metta piede nella Capitale e della superficialità che invece si trova se si decide di rimanere. È una lettera d’amore alla città più bella d’Italia e che ne è lo specchio. Ma non è un semplice esercizio filosofico fine a sé stesso. Sorrentino, con la sua solita regia precisa e controllata e grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi, crea una pellicola che è, effettivamente, bella da vedere oltre che profonda e riflessiva. La popola di personaggi interessanti e pittoreschi, che entrano ed escono dalla vita di Jep senza grande continuità e che lo rendono, e ci rendono, un po’ più sensibili. 

MoonlightMoonlight è la storia di un ragazzo che cerca di conciliare la sua sessualità con l’ideale di mascolinità tradizionalmente associato alla comunità afroamericana di cui fa parte. Barry Jenkins decide di mostrare Chiron, il protagonista interpretato da tre diversi attori in tre spaccati della sua adolescenza, con un linguaggio cinematografico raramente associato a soggetti afroamericani: invece di usare hip-hop e tagli frenetici – come forse avrebbe fatto un regista diverso, e che comunque non è di per sé una cosa negativa – Jenkins usa strumenti più “classici” e un ritmo più lento e ponderato. È difficile esprimere a parole quanto di poetico ci sia in Moonlight, dalla fotografia ai silenzi pregnanti, all’uso simbolico dell’oceano. Questo rende ancora più peculiare il fatto che abbia vinto Miglior Film agli Oscar, in una delle rare volte in cui mi sono trovato d’accordo. È il tipo di film che normalmente sarebbe relegato a liste su “film più sottovalutati della decade” o “film sconosciuti che dovreste vedere”, e che è invece diventato simbolo di un possibile cambiamento all’interno di Hollywood, sia per film d’autore che per il suo approccio a varie tematiche.

Mad Max: Fury RoadFury Road è un film dalla premessa semplice, la cui trama può essere riassunta – in effetti, banalizzata – come “In un futuro post-apocalittico, una ribelle cerca di liberare delle ragazze da una società schiavista. Ad una certa, decide di tornare indietro”. La storia è raccontata in modo organico tramite pochi dialoghi, mentre il passato dei personaggi principali viene rivelato da tanti piccoli dettagli che inizialmente possono sfuggire ma che rendono vibrante e vissuto il mondo di Max e Furiosa. L’avrò visto almeno 20 volte dalla sua uscita, eppure ogni volta che lo riguardo noto qualche dettaglio che prima mi era sfuggito e che riconferma la genialità del suo approccio narrativo. Ma tutte queste considerazioni da snob cinematografico – o sulla composizione centrata adottata dal direttore della fotografia John Seale, o anche sul messaggio femminista e ambientalista – sarebbero inutili se questo film d’azione non avesse una componente fondamentale: l’azione, appunto. E Fury Road fortunatamente in questo non delude: potrei parlare dell’incredibile varietà di situazioni in cui si trovano i protagonisti, ma vorrei solo ricordare che c’è un momento in cui Max combatte con un tipo armato di chitarra elettrica sputafiamme. È forse emblematico dell’imprevedibilità di questo ultimo decennio che nell’era dei film Marvel, l’apice dell’azione sia stato raggiunto da un settantenne premio Oscar per Happy Feet.

Silence – La penultima pellicola di Martin Scorsese non è facile da consigliare: è una lunga e straziante indagine sulla fede, fatta da un regista già noto per le sue riflessioni religiose – il che non stupisce, se ricordiamo che Martin voleva diventare prete da giovane – in L’ultima tentazione di Cristo e Kundun. Silence non è stato fatto per i credenti, ma per chiunque si faccia domande sulla natura di Dio, sul senso della sofferenza terrena e su cosa spinge le persone a dedicare la propria vita – e spesso, la propria morte – ad una divinità. Quando due missionari portoghesi sono incaricati di convertire l’ostile Giappone al Cristianesimo, Dio li mette alla prova sottoponendoli a sofferenze indicibili e rimanendo, appunto, in silenzio; in alternativa, Dio non c’è e i due missionari si stanno autoflagellando inutilmente. Non c’è una risposta corretta, e non può esserci.

Get Out – L’autodefinito thriller sociale di Jordan Peele usa, per creare tensione, una situazione in cui tutti prima o poi si devono cimentare: conoscere i genitori del proprio partner. Il film aggiunge un dettaglio in più, rispetto all’esperienza che può aver avuto lo spettatore: Chris, il protagonista, è nero e Rose, la fidanzata, è bianca. E quando le chiede se i suoi genitori sono a conoscenza di questo particolare, lei reagisce con un tono quasi offeso “Mio padre avrebbe votato per Obama una terza volta, se avesse potuto; non sono razzisti”. E quel che segue è un’intelligente analisi di relazioni razziali, dell’internalizzazione involontaria di pregiudizi e di come i comportamenti di persone che si considerano liberal rendano inconsciamente la vita più difficile alle minoranze. Get Out è una delle pellicole più ri-guardabili di questa lista: la geniale sceneggiatura è disseminata di piccoli dettagli che rendono una seconda visione anche più soddisfacente della prima. Ed è bene che il film venga guardato più e più volte: per quanto parli apertamente solo dell’esperienza afroamericana, il suo messaggio si può applicare decisamente anche da noi oltreoceano.

Una separazioneUna separazione inizia con una richiesta di divorzio e mostra organicamente una serie di tragiche conseguenze collaterali che solitamente derivano da questa azione. Durante questa specie di butterfly effect, ogni personaggio cerca di fare del suo meglio per vivere in modo giusto seguendo i dettami della stessa religione. Ma attenzione: la pellicola non condanna apertamente la teocrazia iraniana e i limiti che impone in quasi ogni aspetto della vita privata. Il regista è infatti più interessato a mostrare la forte empatia che prova per la condizione umana, a prescindere da sesso, età e estrazione sociale. E la sincerità con cui dà vita a questa famiglia crea una storia universale, che mi sembra di aver vissuto pur non avendo apparentemente nulla da spartire con loro: ciò che in fondo ci accomuna, come sottolinea Farhadi, è che siamo tutti persone che cercano di sopravvivere al meglio, di fare del bene per sé e i propri cari e di andare avanti nonostante tutti i malintesi nella vita.

di Matteo Tarascio Breveglieri, all rights reserved

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