Il Dragone sulle onde

di Simone Pasquini

Il Dragone sulle onde

di Simone Pasquini

Il Dragone sulle onde

di Simone Pasquini

Fra pochi giorni uscirà nelle sale italiane l’attesissimo film di Roland Emmerich “Midway”, ispirato alla battaglia infuriata nel Pacifico centrale nell’estate del 1942, e che ha visto avvilupparsi in uno scontro mortale la marina giapponese e quella americana.

A questo punto il lettore si starà chiedendo che cosa c’entri un film sulla seconda guerra mondiale con la Cina. La risposta è semplice. Gli esperti concordano nel ritenere una delle battaglie più importanti della seconda guerra mondiale anche lo scontro che ha sancito, in maniera definitiva e categorica, la vitale importanza delle portaerei.

La Cina non ha mai avuto una grande vocazione per il mare. Il mare lambisce le sue coste per tutta la lunghezza del Paese, con la bellezza di 14.000 Km di spiagge, eppure il Regno di Mezzo non è mai stato particolarmente attratto dalle onde. Sarà stato il ricordo dei due disastrosi tentativi di invasione del Giappone (la nascita della leggenda dello “Tsunami”, il vento divino che ha salvato le isole nipponiche), ma solo durante la dinastia Ming la Cina ha avuto, per breve tempo, interesse a dominare i mari. Dopo la morte dell’imperatore Yongle nel 1424, la Cina si è chiusa al Mondo, e così ha lasciato che nei secoli successivi i suoi mari fossero occupati da potenze molto più bianche e molto più avide.

Dopo la fine della guerra civile e la vittoria del Partito Comunista cinese, l’establishment comunista aveva cose molto più gravi a cui pensare che alla marina militare. Le possibilità di un Paese povero ed agricolo di fronte alle potenzialità degli americani erano praticamente inesistenti. Al massimo, ci si doveva accontentare di una minima protezione delle coste con mezzi scarsi ed obsoleti.

Passano gli anni, poi i decenni. La Cina cresce e si arricchisce, e con l’industria arrivano le possibilità. Dopo Mao venne l’apertura al capitalismo di Deng Xiaoping. Dopo Deng, ecco l’apertura al Mondo di Xi Jinping. La Cina è ora una potenza mondiale indiscussa, e con sempre crescente aggressività ed ambizione mira ad estendere il proprio potere e la propria influenza commerciale. Il progetto delle Nuove Vie della Seta, terresti ma, soprattutto marittime, e la creazione di basi militari all’estero (come l’impressionante complesso costruito a Gibuti) sono l’esempio lampante delle ambizioni cinesi.

Ma c’è un problema: basi lontane e rotte commerciali devono essere sorvegliate. E per sorvegliare, è necessario poter disporre dei mezzi per farlo. E non è possibile avere il controllo delle rotte oceaniche con una flotta di motovedette.

Circa 20 anni fa, le gerarchie militari cinesi (l’onnipotente e onnipresente Commissione militare centrale, organo costituzionale della Repubblica popolare) hanno capito che per poter sostenere i progetti della nuova Cina era necessario “aggiornarsi”. Al poderoso Esercito doveva affiancarsi una altrettanto poderosa Marina, che non poteva essere più costituita da vecchi residuati bellici sovietici.

Da quel momento è cominciato un massiccio ed altrettanto metodico programma di riarmo navale, teso verso due obiettivi complementari: aumentare il tonnellaggio (leggasi, numero di navi), ma, soprattutto, aumentarne la qualità.

Dato che dai tempi della battaglia delle Midway l’importanza delle portaerei non è cambiata affatto, esse dovevano essere un tassello imprescindibile della strategia cinese. La Cina mise mano sulla sua prima portaerei ad inizio secolo, quando acquistò una portaerei sovietica ancora incompiuta dall’Ucraina, e la terminò ribattezzandola Liaoning. Ma nel 2017 dai cantieri cinesi ha visto la luce la nuova arrivata nella marina del dragone, la Shandong: si tratta di una portaerei di nuova generazione, che dimostra la acquisita capacità della cantieristica cinese di sviluppare autonomamente questo tipo di progetti e di portarli compiutamente a termine.

A prescindere dai progressi, per i cinesi stessi notevoli e senza precedenti, che la marina popolare sta mostrando in questi anni, perché dovremmo dedicare troppa attenzione a questo genere di questioni? Perché la Cina non dovrebbe avere il diritto di costruire tutte le navi che vuole? Dopotutto anche l’Italia ha la bellezza di due portaerei, e di sicuro non rivestiamo a livello geopolitico l’importanza del collega asiatico.

Invece questi dati ci suggeriscono sviluppi inauditi.

Dalla fine della guerra fredda ad oggi, nessuno aveva osato competere con gli Stati Uniti nel Pacifico, e proprio sulle portaerei si basa la forza navale americana. In un momento storico dove nessun conflitto può essere vinto senza il supporto di un’ efficiente aeronautica, le portaerei sono una garanzia di vittoria. Sono al tempo stesso una base e un immenso hangar galleggiante che può essere spostato ovunque.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, al Giappone sconfitto fu imposto di rinunciare alla possibilità di detenere una capacità militare “offensiva”. Il divieto di costruire nuove portaerei fu dunque uno dei corollari obbligati, perché le portaerei sono lo strumento offensivo per eccellenza. Solo chi sente la necessità di portare le ostilità lontano da casa ha il bisogno di portarsi dietro gli aerei. Ed ora appare chiaro perché questa precisa scelta geo-strategica della Cina (la costruzione delle suddette portaerei) non po’ non destare la grave preoccupazione degli USA e dei loro supporter (in particolare Giappone, Corea e Taiwan). Appare evidente che una accresciuta capacità di proiezione della marina cinese permetterebbe al Paese di aprirsi alle vaste distese del Pacifico, e non rimanere più costretto all’interno degli angusti spazi del Mar Cinese Meridionale e del Mar del Giappone, dove poteva essere controllato.

Ma c’è di più: una portaerei da sola è praticamente inutile. È un bersaglio grosso e lento, che necessita di una scorta costante ed efficiente per poter svolgere il proprio ruolo (basti pensare che anche un piccolo sottomarino, con un solo siluro, sarebbe astrattamente in grado di affondare una super-portaerei a propulsione nucleare). Di conseguenza, la costruzione di nuove portaerei porterà necessariamente allo sviluppo di nuovi progetti e alla costruzione di nuove unità (cacciatorpediniere, fregate, sottomarini), indispensabili ad una squadra navale di questa portata.

Già ora, benché noi europei raramente riceviamo queste notizie, la situazione nel Mar Cinese Meridionale è molto complicata, con confini marittimi e zone economiche esclusive che non vengono rispettati e con unità americane e cinesi che incrociano spesso le stesse acque, producendo sovente attriti. L’aumento del tonnellaggio nelle acque intorno a Taiwan e nell’Indo-Pacifico in generale non faranno altro che aumentare sensibilmente i pericoli di una escalation.

Tutto questo non riguarda solo gli Stati Uniti o il Giappone o Taiwan. Dalla firma del memorandum fra Italia e Cina sulle Nuove Vie della Seta ormai le porte sono aperte alla penetrazione cinese, perlomeno commerciale. La crescita dell’influenza cinese sarà costante ma inesorabile, con il Mediterraneo come terminal delle merci e degli scambi. Ma dove circolano merci e risorse, gli interessati sentono il bisogno di “supervisionare”. Già ora navi da guerra cinesi visitano le acque del Mediterraneo con notevole regolarità, cosa fino a qualche decennio fa impensabile. Con una accresciuta capacità di proiezione cinese, come potrebbe cambiare lo scenario per noi, Nazione marittima e membro della NATO?  

di Simone Pasquini, all rights reserved

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati