UN GIORNO IN FAMIGLIA: IL CONTRARIO DI UN FAMILY DAY

di Redazione The Freak

UN GIORNO IN FAMIGLIA: IL CONTRARIO DI UN FAMILY DAY

di Redazione The Freak

UN GIORNO IN FAMIGLIA: IL CONTRARIO DI UN FAMILY DAY

di Redazione The Freak

Nelle domeniche d’estate ci si trovava in mutande sotto il ciliegio, nel giardino della nonna. Il pozzo, proprio a fianco al ciliegio, era il seggiolino dei più veloci. Gli altri cugini rimanevano in piedi, le mutande bianche prese in prestito nella lavanderia, a volte grandi da mostrare qualcosa, a volte vecchie a ricordare decenni andati.

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Le ciliegie marinelle sull’albero c’erano eccome. Chi stava sul pozzo provava allora a sollevarsi in piedi e ad afferrarne qualcuna. Con gli ossi, poi, si faceva la gara di sputi. Ma più bello ancora era il momento del bagno. Atteso, sudato. A turno si apriva la canna e si cominciava, sorridendo, a mirare verso gli altri. Era l’idea del mare, solo che ce l’avevamo in città, a portata di mano e senza ombrellone.
Erano anche le estati in cui le lucciole in giardino si contavano a decine. Adesso, lo so, è diverso, sono un’eccezione che sa di anni novanta. E d’altra parte in mutande dalla nonna non ci incontriamo più. O meglio, non siamo più noi. Ci sono i cugini più piccoli, nati dagli zii più piccoli, in una ruota di tempo che ha riempito la casa di nomi nuovi.

La giornata in famiglia era puntarsi la canna dell’acqua contro e, anziché irrigare il giardino, irrigare i bambini che eravamo, i bambini che un po’ siamo ancora. Maschi, femmine, tutti con le stesse mutande. E non perché non esista il genere o, come si dice oggi, il gender, ma perché erano quasi tutte ereditate dalla generazione precedente e perché, a quell’età e di domenica, chi se ne importa della forma. E poi in lavanderia e negli armadi vigeva un regime di anarchia: la proprietà privata aveva smesso di esistere molti anni prima e tutto era di tutti, o di qualcuno che poco importava.

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Una cosa che, in verità, non ho accettato mai. Come le discussioni che, crescendo, mi capitava di ascoltare all’ora del caffè. Chissà perché a pancia piena si sente il bisogno di dire sempre la propria. Ma le case, si sa, sono tutte un difetto. La nostra come le altre, solo più numerosa.

E però era, è una famiglia. Nel caos dei giorni di festa, nel non farsi il regalo “perché siamo troppi”, nei compiti delle vacanze fatti al tavolo della cucina, mentre la nonna alternava insegnamenti da vecchia maestra alla preparazione del pranzo. Non c’era mai un attimo di silenzio, soprattutto quando lei, forzuta e mai stanca, metteva in tavola la pizza. Una pizza soffice e spessa che usciva dal forno a legna che si era fatta costruire sotto il portico. Ammutoliva tutti per un attimo, quella trovata geniale. Poi, però, il caos ricominciava.

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A volte la parata di bambini si spostava dal gelataio davanti alla chiesa. Alle quattro del pomeriggio, tutti in fila. Si usciva dalla casetta in legno che la nonna aveva costruito in giardino e si raggiungeva la pasticceria di Gino, che allora era giovane e adesso non c’è più. Faceva i gelati più buoni del paese, Gino, eppure (non ho ancora capito perché) noi volevamo gli Algida. Sarà per il lusso di scegliere tutto, dal gusto alla confezione al nome. O sarà perché i più grandi avevano dettato la linea e gli altri seguivano a ruota. Chi il ghiacciolo, chi il cornetto, io sempre il cremino; ancora oggi, ogni tanto, quando voglio ricordarmi la lastra sottile di cioccolato e poi una panna che sporca la bocca. Tornavamo a casa mangiando e poi di nuovo seduti sul bordo del pozzo, sotto il ciliegio, con la canotta macchiata. Altre volte ci appostavamo sui grandi sassi in giardino. Un’alternativa alle sedie, secondo la nonna, ma in effetti mancava la comodità.

E forse avremmo fatto bene a chiederci già allora cos’era, davvero, una famiglia. Magari non ci troveremmo così persi adesso che vediamo una piazza riempirsi di slogan. Loro ci spiegano che la famiglia è questo ed è quello, che dovrebbe essere questo e non quello. Noi, invece, non abbiamo mai una definizione. A noi la famiglia era sembrata una vendemmia, un corso di nuoto, la cena d’estate che si fa più tardi, la tazza di Babbo Natale che si è bevuto davvero il caffè. E al genere, al ruolo, ai testi, alla verità non avevamo pensato mai. Per noi la famiglia è il treno del ritorno, il litigio di un giorno, il parente che ha smesso di starci simpatico e magari, un giorno, glielo diremo perfino. È mille cose dritte e mille cose storte, il calore di una casa e la puzza dei parenti che, sì, a volte sono come il pesce.

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Vorremmo dirlo alla coppia dagli undici figli, a chi ripete, striscione alla mano, che “maschio e femmina li creò”.

A quelli che temono i corsi nelle scuole, convinti davvero che si insegni un genere neutro, valido per tutti, per superare l’uomo e la donna.

Vorremmo dirlo alle sentinelle in piedi, ferme come fossili, e a chi spiega che la tecnica non deve poter aiutare a fare figli. Che o sei fertile o non lo sei e la natura parla chiaro.

Chiaro, a dire il vero, vorremmo finalmente parlare noi. E spiegare quanto è rigida la loro verità e quanto è matrigna la loro natura e quante eccezioni esistono per una regola e quanto è immorale discutere dell’assenza di morale negli altri. Ma poi ci ricordiamo che è domenica, oggi come ai tempi del cremino, oggi come nei giri in bicicletta, oggi come quando ci sbucciavamo le ginocchia e passavamo le giornate all’ombra del ciliegio. E allora non serve neanche dirlo, che già lo sappiamo. Quanto si allontana un giorno in famiglia da un family day.

di Anna Madia, all right reserved

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