Il governo Draghi oggi sembra un’ammucchiata, persino uscita male. Non c’è dubbio. Capisco infatti la delusione di molti. Di chi voleva discontinuità e si ritrova Speranza e Di Maio. E di chi Gelmini e Brunetta pensava di esserseli lasciati definitivamente alle spalle. E invece no. Sono tornati tutti al loro posto e sono pronti per l’immancabile foto di rito, al massimo con un vestito nuovo. Ma in politica si sa, vige solo una regola aurea: mai dire mai.

E allora provo a dare un senso a quello che è successo in questi giorni. Così rifletto su quante volte abbiamo parlato nel 2020 di Covid come guerra. Di trincea. Di battaglie. Di coprifuoco. Diciamo la verità, la metafora bellica ci è piaciuta ed è stata usata fin troppo anche a causa della poca fantasia di giornalisti e non – mi ci metto anch’io.
Ma se è vero, come è vero, che in fondo una specie di guerra l’abbiamo vissuta e la stiamo ancora vivendo, non si può allora non pensare che per uscirne ci fosse bisogno di una svolta che passasse anche dai palazzi romani del potere.
Il governo Conte, al di là del giudizio personale di ognuno – il mio non è di certo positivo, ma non è questo il tema -, ha diviso il Paese. Ed è un fatto, non un’opinione. L’ex premier è diventato un personaggio – come si dice appunto nel vocabolario della comunicazione – “divisivo”. Ha polarizzato l’opinione pubblica in due blocchi ben definiti: lo ami o lo odi, con lui o contro di lui. E questa è di per sé una strategia vincente per un politico. Grande merito va infatti al vero artefice dell’operazione: quel Rocco Casalino tanto preso in giro per i suoi trascorsi al Gf e che adesso ha persino scritto un libro dal titolo: “Il Portavoce”.
Ma un presidente del Consiglio che deve affrontare delicati passaggi come Covid e Recovery può davvero essere così “divisivo”? È questa la domanda delle domande per me. Ed è da questa domanda e dalla risposta che ne consegue che nasce il governo Draghi.
Un governo di unità nazionale che assomiglia a un’ammucchiata, certo. Che rappresenta però l’eccezione, non la regola. Proprio come avvenne nei primi governi dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando Dc e Pci decisero di sedersi allo stesso tavolo. Andò proprio così. E quindi come si fa a non partire da questa premessa, prima di provare a dare un giudizio sulle singole scelte, sui singoli ministeri?
Certo, se avessi potuto scegliere avrei preferito un altro ministro degli Esteri e non Luigi Di Maio. Avrei evitato di assecondare i capricci di Beppe Grillo sul ministero della Transizione Ecologica. Così come qualcun altro avrebbe evitato volentieri leghisti o renziani. Ma capisco che per tenere tutti dentro e seguire la volontà del presidente Mattarella, la formula democristiana del manuale Cencelli era l’unica via d’uscita. Una via d’uscita sicuramente non eccezionale, ma necessaria per pacificare un Paese diviso e incattivito.
Basterà questo? Non credo proprio, non facciamoci strane illusioni. Serviranno ovviamente i fatti. Ma servirà anche e soprattutto la buona volontà dei partiti di lasciare alle spalle le polemiche e di iniziare a collaborare. Davvero. Per la prima volta senza pregiudizi.
La scelta di Draghi di inserire tanti esponenti dei partiti all’interno del governo (contro tutti i pronostici che davano invece più tecnici che politici) va proprio in questa direzione. Ed è una scelta sensata che non riuscì ad attuare Mario Monti, per esempio. Motivo per cui dopo non molto fu scaricato. Avere importanti politici nell’esecutivo può infatti responsabilizzare i partiti che così non potranno più tirarsi indietro. O forse no. Staremo a vedere…