“Good times for a change”

di Stefano Frisenna

“Good times for a change”

di Stefano Frisenna
"Good times for a change"

“Good times for a change”

di Stefano Frisenna

1984. Ovvero l’anno di I want to break free, Girls just want to have fun e Take on me.

La musica, e tutto il mondo pop, sono incantati da questi muri di sintetizzatori e si lasciano avvolgere dai colori patinati della moda. Siamo proprio nel mezzo degli anni ’80, il decennio forse più riconoscibile di sempre con quel misto di spensieratezza e voglia di divertirsi vissuto al ritmo della disco music. Un’epoca che oggi viene idolatrata da moltissime serie e film, in primis Stranger Things e Guardians of the Galaxy, venendo vista quasi come un’età idilliaca, in cui tutto sembrava andare per il verso giusto, talmente giusto da far sembrare la felicità come una cosa superficiale.

Il 20 agosto di quell’anno però, proprio nel periodo più malinconico come la fine dell’estate, una band decise di dar voce a tutti gli altri lati rimasti nascosti negli adolescenti della grigia Inghilterra dell’epoca. Questa band, divenuta poi uno dei “genitori” di quella che oggi definiamo “scena indie”, sono i The Smiths e il brano in questione è Please Please Please Let Me Get What I Want. Un titolo lunghissimo per un pezzo che dura solo 110 secondi. Esattamente, un minuto e cinquanta, o per meglio dire, il minuto e cinquanta più struggente della storia della musica contemporanea.

Ci sono canzoni che possono legarsi eternamente ad una persona, spesso perché sentite in un momento particolare della propria vita come la fine del liceo o perché colonna sonora delle prime fasi di un innamoramento. Dall’altra parte però ci sono anche canzoni che riescono universalmente ad emozionare chiunque le ascolta, come se chi le ha composte conoscesse gli accordi per toccare le corde più profonde dell’anima di tutti. Morrissey, cantante e leader dei The Smiths, riesce come un mago a suonare questi accordi e allo stesso tempo a raccontare se stesso all’ascoltatore – psicologo. La registrazione della canzone diventa così una seduta terapeutica, una sessione per liberarsi dei propri demoni. Ascoltandola si prova quasi compassione per l’autore, una voglia di abbracciarlo e consolarlo, portando anche la persona più fredda del mondo a diventare empatica. Allo stesso tempo però, se ascoltata in altri momenti della propria vita, Please please porta a immaginare Morrissey come un fratello maggiore pronto ad aiutarci ad andare avanti. Quel fratello maggiore che ti dirà sempre cosa fare, pronto a tirarti su nei momenti peggiori e a darti coraggio perché protetto dal suo scudo.

Proprio qui sta la bellezza di questa canzone cosi corta: nella sua capacità di cambiare ad ogni ascolto, riconoscendo nuove sfumature nella voce di Morrissey attraverso una nuova sfumatura diversa del proprio stato d’animo al momento dell’ascolto. Il brano diventa così uno specchio di se stessi, continua a cambiare nel corso della vita adattandosi ai nostri cambiamenti.

Please please please è così un pezzo semplice, in cui vengono mischiati solo tre strumenti: chitarra, voce ed emozioni. La canzone è come una preghiera, riferita a un qualche Dio non meglio specificato, o perchè no, a se stessi. Una preghiera che si apre con un Good times for a change”. Chi non si è mai detto questa frase? Spesso in momenti negativi della propria vita come quando si dice addio ad una persona che si ama, quando si perde un amico fraterno per un litigio o quando si deve abbandonare tutto per inseguire i propri sogni. Momenti in cui sembra di essere al buio, come all’ingresso di un tunnel. Sono proprio questi istanti, però, quelli che ricorderemo di più una volta vecchi, quelli che suonano l’accordo nascosto. Da questi eventi, dove sembra di aver perso per sempre un pezzo di se stessi, spesso ne acquistiamo uno nuovo, in un continuo arricchirsi dalle esperienze precedenti, perché sono proprio queste cadute a farci uscire dall’apatia, dal ciclo abituale delle comodità, a farci dire che è un “Good Time for a Change. A darci la forza per provare a saltare più in alto.

Bisogna sempre ricordare, però, che Morrissey era come un fratello per noi adolescenti, una sorta di migliore amico di ognuno di noi nella fase più irrazionale della nostra vita. Per gli adolescenti ogni emozione è estremizzata, dal primo innamoramento alla prima delusione, sembra come se tutto fosse in 4k. Morrissey allo stesso tempo è un adolescente cresciuto, queste emozioni per lui hanno perso la risoluzione che avevano precedentemente: “Haven’t had a dream made in long time”. Anche lui ha ceduto all’apatia della vita adulta, alla stabilità, anche lui ora sembra aver paura di fare un salto del buio, si accontenta dello stato attuale delle cose. Anche lui ha smesso di sognare. E ancora una volta sorprende come questa canzone possa parlare a chiunque di noi. Ognuno di noi ha avuto quelle fasi temporanee, fosse di un giorno, di un mese o di un anno, dove alla domanda: “Come stai?”, si rispondeva con un laconico “Mah, bene”. Dove sembrava di sentirsi protetti nello status quo, circondati dai propri amici o anche da un proprio compagno/a a cui si era affezionati. Quelle fasi in cui si è sicuramente felici, ma allo stesso tempo si smette di inseguire i propri sogni, in cui non si rischia di avere di più per la paura di avere di meno. Le fasi in cui da irrazionali adolescenti si diventa adulti.

“So for once in my life, let me get what I want. Lord knows, it would be the first time”. Questa chiusura malinconica ribalta però tutto: Morrissey, come ognuno di noi, è troppo legato al proprio lato emotivo, non riesce ad essere razionale, non riesce a cedere ad una stabilità. Il cervello non riesce a comandare alla sua dipendenza da emozioni. Il cantante continua a chiedere qualcos’altro, cerca di arraffare qualcosa di nuovo, e chiede di farlo “for the first time”.

E qui sta tutta la poesia della canzone. L’autore è disperato per cercare di raggiungere quella felicità perfetta, quella rappresentata nei film, quella cantata nelle altre canzoni degli anni ottanta. Una felicità, che può avere il nome di una donna o la silhouette di una città, che non sia solo temporanea. Un “Please please please let me get what I want” ripetuto tre volte. Una preghiera a se stessi in cui spera di non doversi più accontentare, di poter finalmente raggiungere una felicità perpetua, una felicità di cui non stancarsi, in cui ci si rende conto di non aver più bisogno di qualcosa di nuovo.

Il momento in cui l’adolescente si trasforma in adulto.

E così Morrissey dopo decine di esperienze, di momenti felici ma anche di delusioni, di salti nel buio e malinconia per ciò che ha lasciato indietro, deciderà di fermarsi quando “he’ll get what he wants”. Allo stesso modo l’ascoltatore smetterà di premere re-play dopo un minuto e cinquanta, smetterà di riascoltare quella canzone, di rivivere gioie brevi ed intense. In quel momento, al centodecimo secondo, verrà solo premuto il tasto stop nella speranza di trasformare l’istantaneo in eterno.

Lord knows, it would be the first time”.

di Stefano Frisenna, all rights reserved

Una risposta

  1. “Una preghiera a se stessi in cui spera di non doversi più accontentare, di poter finalmente raggiungere una felicità perpetua”
    Quando l’emozione diventa parola.
    Bell’articolo.

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