GIOVANNA D’ARCO DELLE MERAVIGLIE: QUANDO LA SCALA SA ESSERE LA SCALA

di Valerio Tripoli

GIOVANNA D’ARCO DELLE MERAVIGLIE: QUANDO LA SCALA SA ESSERE LA SCALA

di Valerio Tripoli

GIOVANNA D’ARCO DELLE MERAVIGLIE: QUANDO LA SCALA SA ESSERE LA SCALA

di Valerio Tripoli

Riccardo Chailly entra nel golfo mistico del Teatro alla Scala alle 18:05 di Lunedì 7 Dicembre. Nel palco reale, tempestato di gigli bianchi in omaggio alla Francia, le principali autorità civili di Milano, con il presidente del consiglio dei ministri; tra platea e palchi, schiere non troppo nutrite di politici, attori, musicisti, personaggi dello spettacolo, della moda e del giornalismo, ospiti internazionali, blasonato contorno al pubblico degli abbonati. Milano riunita, sotto l’occhio (e la canna) dei cecchini, sui tetti dei palazzi di piazza della Scala: e il rito della prima ha inizio.

image

Di alcuni degli aspetti più interessanti dell’opera inaugurale, Giovanna d’Arco, venuta fuori dalla penna di Giuseppe Verdi, s’è già detto una settimana fa, su questa pagina (https://www.thefreak.it/giovanna-darco-senso-dellopera/). Si dirà qui della regìa, della direzione, dei cantanti. Si dirà, qui, del fatto che Giovanna d’Arco si prende una rivincita sui centocinquant’anni di assenza dalla Scala. Chi, per posizioni prese, per nostalgia delle voci di un tempo, per fedeltà assoluta alle regìe tradizionali à la Zeffirelli, avesse i preconcetti che non albergano in chi vuole cogliere il divenire, libero, del bello, può anche evitare di scorrere queste righe sino alla fine.

Breviter, la regìa rappresenta una camera in cui Giovanna è fanciulla affetta da isteria, pazzia. È il freudianesimo che viene ad emergere, la psicoanalisi, e tutte le visioni di Giovanna, compresi il re di Francia, un dorato Carlo VII, i diavoli e gli angeli, sono come cavati fuori dalla mente delirante di una ragazza malata. Se, poi, si fa caso a come il libretto venga riportato all’originale, senza le modifiche imposte dalla censura, e dunque ritorni quell’insistenza sul sesso e sulla purezza di Giovanna che era scomparsa («non sacrilega» ritorna ad essere «pura e vergine»), sembrerà quasi che quello stato psichico sia dovuto ad una perduta verginità, almeno agli occhi di un padre esso pure sconvolto, sino alla fine, quando la morente Giovanna rappresenterà solo una ragazza vittima della sua debolezza, dell’instabilità, non ultimi, dei dogmi borghesi.

037_K65A7142-kE0C-U43130923539659xED-593x443@Corriere-Web-NazionaleOra, tutte le nuove regìe s’inventano una storia sulla storia. Buona o cattiva cosa? Lo abbiamo detto più volte: se v’è coerenza nella messa in scena, e rispetto dell’intimo senso della musica e del testo, che il regìsta faccia ciò che crede. Se poi il risultato è bello, quella regìa avrà avuto successo. Per noi, questa variopinta regìa di Moser Leiser e Patrice Caurier si è rivelata coerente, rispettosa e bella: basti citare lo stupendo modello della cattedrale di Reims, alto più di otto metri, che troneggiava nel III Atto come fosse prodigioso apparato barocco, nonché il rogo effimero ad apertura del IV Atto, nel quale tutti i mobili della stanza di Giovanna si accatastavano al centro, in delirio forsennato, come in una pira. E poi muove in maniera efficace e disinvolta una massa corale la cui imponenza avrebbe scoraggiato molti: e non è cosa da poco.

milano-stagione-2015-16-del-teatro-alla-scalaL’ouverture dell’opera è paradigmatica della direzione di Chailly: è divisa in tre parti, a citazione (meno che della prima parte) di quel capolavoro assoluto che è l’ouverture del Guillaume Tell, di Gioacchino Rossini – che Chailly ben conosce, da quando, ventenne, ne collocò nell’Empireo una incisione in disco, non per suo solo merito. Prima i timpani, poi gli archi più gravi, con il fagotto, ribolliscono in folate di vento, lampi all’orizzonte. Le prime gocce le stillano un flauto e un ottavino. Raggiunto un primo scoppio, con l’intervento degli ottoni, impazza la tempesta. Ma, subito, il suono si rarefà: un flauto si scopre, con il clarinetto e l’oboe, ad annodare una treccia di semplicissima melodia. È la quiete, serena, della foresta. Ma nuovo è il turbamento, e pare ritornare la tempesta: lo scoppio, furibondo, è però di una marcia, trionfale.

image

Questa parte dell’opera, cui più Verdi teneva, è magistralmente interpretata da Chailly, e ciò che vale per essa vale per tutto il resto. Nei tempi non v’è mai un eccessivo insistere su vuoti o pause: la sezione centrale vibra bellezza non manierata, essendo il tempo spedito e lesto. Ma la marcia, finale, che per spavalderia si presterebbe a colorazioni bandistiche, dimostra come la scuola dell’orchestra di Lipsia sia servita a Chailly per maturare l’esperienza già acquisita. Dove le semicrome si susseguono di battuta in battuta, e trombe e tromboni paiono forsennati musicanti in processione, Chailly rende squilli nitidi ed eleganti. Dove la ritmica piatta spingerebbe a martellare, nonché gonfiare, Chailly fa sfumare il suono. Ed essendo tutta la Giovanna d’Arco opera più che mai pensata per il canto, dunque fatta di pizzicato d’archi, tempi quasi sempre costanti ed eccezionali a soli di strumenti in orchestra, i miracoli compiuti nella ouverture trasmigrano placidi in tutti gli Atti: le cabalette sembrano belliniane, tanto sono serene, e la voce dei cantanti può dispiegarsi senza fretta, senza affanno; le sferzate degli archi sono battiti d’ali imponenti, come forse solo Sir George Solti sapeva far suonare, in Verdi. Le arie hanno una trama orchestrale che migliore non potrebbe desiderarsi, dalla quale spesso si dispiegano, appassionati, i violoncelli. Tutti gli insiemi sono controllati, il Finale, con le voci del tenore e del soprano che cantano, una prima e l’altra appresso, con un accompagnamento cameristico, sembra suonato al pianoforte, salvo poi esplodere, controllato, nella chiusa conclusiva. Si dica, ormai, una volta per tutte: un’opera del repertorio italiano diretta così mancava, alla Scala, da troppi anni.giovanna-darco-per-lanteprima-giovani-628x353

Il cast vocale è eccelso. Giovanna, soprano, è interpretata da una Anna Netrebko che, pur con una voce spesso alle prese con un repertorio non congeniale è, di scena in scena, in inarrestabile salita: canta la cavatina «Sempre all’alba» e il primo duetto con il tenore in modo non eccezionale, ma le note ci sono tutte. L’aria «O fatidica foresta», altro omaggio di Verdi al Guillaume Tell rossiniano, è da grande artista. Ma il lungo duetto con il tenore, che occupa buona parte del II Atto, è, per merito di entrambi, cosa che alla Scala lascerà il segno: una meraviglia, c’è poco altro da dire. Di lì, la parte di Giovanna è una delizia per le orecchie, e tutta la tessitura, centrale ed acuta, è magistralmente emessa, con potenza e grazia, che combinare assieme sanno solo i grandi.

Di Francesco Meli s’è già detto qualcosa, quando canta con Giovanna. Ma lui, il tenore, non ascende pian piano al Parnaso. C’è già dal primo, eccezionale, recitativo. Di lui si loda il fraseggio, l’emissione sicura, i timbri chiaroscurali: tutto ciò che qui non replichiamo, per non stancare. Notiamo, almeno: l’ultima aria sarà da antologia.

Sulle vicende che hanno portato a far cantare a Devid Cecconi, giovane baritono toscano, la parte del padre di Giovanna, prima affidata ad un Alvarez congestionato da bronchite, gli appassionati hanno da giorni seguìto le vicende. Agli altri, basti sapere che questo ragazzone poco aveva a che vedere con due giganti al pari della Netrebko e di Meli. Ma la fortuna avuta nel sostituire Alvarez alla prima di Sant’Ambrogio, Cecconi ce l’ha ripagata come meglio poteva: un bel timbro, troppo limitato per dominare la parte in una tale serata, una buona recitazione, una umiltà che gli si vedeva dagli occhi. E se le cronache storiche saranno avare di trionfi con lui, Cecconi avrà sempre il ricordo di una sala sfavillante, che in un Sant’Ambrogio gli ha tributato la sua strizzata d’occhio, e il suo plauso.

MILANO_20080713_CORSERA_50_0_0

Infine, ricordiamo a noi stessi che lo scorso anno, in queste colonne, chiedevamo dove mai ne andasse il Coro scaligero, che in quel Fidelio, diretto da Barenboim, era stato quasi completamente latitante. Quest’anno possiamo risponderci: eccolo, il Coro che cercavamo.
Sotto la direzione di Bruno Casoni tuona, possente, negli insiemi del III Atto; ammicca, demonio, nelle scene di delirio di Giovanna, insieme a contralti angelici, che sembrano staccarsi da un fondale raffaelliano. Segue e difende, quale cinta muraria una città, il suo re incerto, e spesso debole. Specie nella parte del Coro dei diavoli, si vede benissimo che su Chailly influì la lezione del divo Claudio, Abbado: quando quest’ultimo diresse, nel 1975, il celeberrimo Macbeth con la Verret e Cappuccilli, Luchetti e Ghiaurov (è vero, quello era un cast da far tremare le ginocchia), il Coro delle streghe gracchiava, e le signore del Coro, nobildonne e rispettabili, starnazzavano come galline. Ebbene, lo stesso espediente è qui ripreso da Chailly e Casoni: il Coro dei diavoli non canta, blatera sguaiato. Le splendide ugole che pochi minuti prima e ancora poi vibrano melodiose, qui ricordano le garbate liti tra comari dei quartieri napoletani.
È il carattere del demoniaco che è volgare, prima ancora che demoniaco in sé: e il volgare è più che mai popolare.
Ma se anche il successo è popolare, potremmo pensare al semplice sillogismo per cui, in definitiva, il successo è volgare. Quindi? Ci chiudiamo in dorati palazzi di anticaglie e giradischi? Possiamo. Ma noi, per parte nostra, accompagniamo fiduciosi la vicenda attuale, e vivente, della musica. E dell’arte.

Valerio Tripoli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati