Galli Della Loggia:
il 25 aprile e i fascisti

Galli Della Loggia: "Vi spiego
dove sono finiti i fascisti"

Intervista allo storico ed editorialista del Corriere della Sera
"Quasi tutti gli statali avevano obbedito al Regime e poi..."

di Simone Pasquini

Galli Della Loggia:
il 25 aprile e i fascisti

Galli Della Loggia: "Vi spiego
dove sono finiti i fascisti"

Galli Della Loggia: "Vi spiego
dove sono finiti i fascisti"

di Simone Pasquini
Galli Della Loggia

Galli Della Loggia:
il 25 aprile e i fascisti

Galli Della Loggia: "Vi spiego
dove sono finiti i fascisti"

Intervista allo storico ed editorialista del Corriere della Sera
"Quasi tutti gli statali avevano obbedito al Regime e poi..."

di Simone Pasquini

Quando risponde al telefono il Professor Ernesto Galli Della Loggia, storico tra i più apprezzati del nostro Paese ed editorialista per il Corriere della Sera, è pomeriggio. Mancano pochi giorni al 25 aprile: il Professore decide di rispondere a una domanda inusuale che serpeggia, mordente e velenosa, negli scantinati chiusi male della mia testa, negli agri tempestati dalle zanzare: cosa ne è stato di chi era fascista all’indomani della Liberazione

Il Professore prende fiato, il nostro colloquio può cominciare…

Professore, di solito la narrazione della fine del regime preferisce soffermarsi sulle tappe che  storicamente portarono alla caduta del fascismo, senza indagare la fine che invece fecero i fascisti veri e propri. Quale fu dunque la sorte di quelle migliaia di italiani che decisero di seguire Mussolini fino alla fine?

“Bisogna partire da un presupposto: molti di quelli che si trovarono a lavorare nell’amministrazione durante la Repubblica Sociale Italiana erano semplicemente persone che sentivano la necessità di un impiego per vivere. Molto spesso, si limitarono a continuare a svolgere gli incarichi che già ricoprivano prima dello scoppio della guerra e della sconfitta dell’Italia. Sicuramente vi furono alcune migliaia di convinti aderenti al fascismo repubblichino, in massima parte giovanissimi e vecchi fascisti della prima ora che speravano in una rigenerazione del fascismo, ma si trattò sempre di una componente molto minoritaria. Basti pensare ai bandi militari emanati nel 1944 dal Governo di Salò, i quali riscossero una scarsissima partecipazione da parte dei giovani, molti dei quali si videro proprio per questo costretti ad unirsi alla lotta partigiana. Gli italiani, dopotutto, avevano già chiaro quale sarebbe stato l’esito del conflitto, senza contare che molti di essi ritenevano la RSI qualcosa di diverso dal fascismo a cui erano stati abituati”. 

Quindi, secondo lei, il fascismo della Repubblica sociale era diverso da quello del ’22?

Nella memoria storica del Paese, io credo, “vero” fascismo viene considerato solo quello che va dal 1922 al 1943, e dal quale gran parte della popolazione si era già disaffezionata nel corso della guerra. Anzi, le fonti ci dicono che già dal 1940 vi fu un sensibile deterioramento del legame fra popolo e regime, soprattutto a causa dei disastri militari raccolti dal fascismo in Grecia ed in Africa, nonostante il fascismo stesso si fosse sempre presentato come un movimento bellicoso e guerriero. La realtà è che era estremamente difficile essere ancora fascisti dopo la sconfitta e l’armistizio del ’43, e proprio per questo non dobbiamo immaginarci grandi legioni di camicie nere al servizio di Mussolini fino alla fine. Quasi tutti, soprattutto nell’ambiente medio e piccolo borghese, continuarono a recarsi a lavorare in uffici dove campeggiava il fascio littorio, ma ciò significava in realtà molto poco.”

Perché secondo Lei, a differenza di ciò che accadde in Germania e Giappone, non venne istituita anche da noi unaNorimberga italiana”?

“Beh, prima di tutto bisogna dire che in Italia, a differenza della Germania, abbiamo avuto un movimento di resistenza molto forte. Se vogliamo, furono gli stessi partigiani che in molti casi pensarono a “processare” sommariamente coloro che ritenevano responsabili, a partire da Mussolini fucilato e poi esposto a Piazzale Loreto insieme con gli altri gerarchi. Norimberga fu voluta dagli alleati anche per una esigenza di questo tipo. Durante gli ultimi mesi della RSI ed immediatamente dopo vi furono molte migliaia di vittime proprio a causa di questa tendenza, sebbene ovviamente non tutti quelli ipoteticamente perseguibili per la loro condotta durante la guerra venissero poi sottoposti a questo tipo di giustizia sommaria”.

Quindi lei pensa che questa assenza sia dovuta più al ruolo giocato dalla Resistenza e non, come spesso si sente dire, a causa delle logiche della Guerra Fredda?

“Le logiche della Guerra Fredda servirono più che altro ad evitare una “Norimberga italiana all’estero”, ovvero ad evitare che militari italiani responsabili di atrocità fossero estradati e processati in altri Paesi. Prendiamo l’esempio dei tedeschi: un numero altissimo di ufficiali furono processati non da tribunali alleati bensì, in massima parte, da tribunali polacchi, russi e cecoslovacchi, i quali quasi sempre condannarono questi imputati a morte. L’Italia, al contrario, tirò molto per le lunghe le richieste di estradizione presentate da altri Paesi nei confronti di militari italiani accusati di crimini di guerra. Questo soprattutto perché il nuovo governo Repubblicano non aveva intenzione di mostrarsi alla popolazione come incapace di tutelare i cittadini italiani dalle pretese punitive delle altre nazioni. L’acuirsi della Guerra Fredda non fece che facilitare questa linea d’azione, soprattutto in considerazione del fatto che molti dei Paesi dai quali potevano provenire le richieste ricadevano ormai nell’orbita comunista. Purtroppo, piaccia o non piaccia, esiste da sempre la ragion di Stato, ed in questo caso le esigenze della giustizia furono costrette a passare oltre”.

Ho voluto chiederglielo proprio perché spesso sorgono polemiche intorno a personaggi come il Generale Rodolfo Graziani, il quale sopravvisse alla guerra ma non fu mai condannato per crimini di guerra...

“Infatti stiamo parlando esattamente di questo tipo di soggetti. Graziani sarebbe stato perseguibile già per le azioni che aveva ordinato anche prima della Seconda Guerra Mondiale, in particolare nella repressione della resistenza indigena in Libia ed in Etiopia. Basti pensare alle migliaia di etiopi massacrati nel 1937 dai soldati italiani come rappresaglia per il fallito attentato contro la vita dello stesso Graziani, allora Viceré d’Etiopia. Difatti l’Etiopia stessa aveva formalmente dimostrato la propria volontà di processare Graziani per ciò che aveva commesso in Africa Orientale.” 

Cosa si potrebbe dire, invece, di tutti quegli italiani vicini al fascismo che non solo non vennero perseguiti ma poterono addirittura conservare il proprio posto all’interno dell’amministrazione?

“Bisogna partire da un presupposto: è innegabile che la quasi totalità dell’amministrazione aveva obbedito agli ordini del Regime senza contestazioni. Si trattava di uomini che, fondamentalmente, riconoscevano il Fascismo come il legittimo detentore del potere dello Stato e di conseguenza gli obbedirono senza farsi troppi problemi sulla sua natura dittatoriale. Ma proprio per questo motivo, se si fosse voluto procedere con fermezza nei confronti di tutti coloro che avevano dimostrato un simile atteggiamento sarebbe stato necessario nel ’45 condannare alla morte civile diverse centinaia di migliaia di italiani. Io penso che nessuna persona sensata avrebbe fatto una cosa del genere, anche perché avrebbe significato una rivolta.

Bisogna anche capire che la neonata classe politica repubblicana era una classe politica molto debole, che non poteva permettersi di arrivare allo scontro diretto con ampie porzioni della popolazione proprio nel momento in cui sembrava definitivamente cessata la guerra civile. Certo, è innegabile che si sarebbe potuto agire con maggiore energia nei confronti di alcuni soggetti determinati, ma in ogni caso si trattava di un problema politico di ben più ampie proporzioni. Mi pare inevitabile che le cose siano andate come sono andate effettivamente. Questo, sia ben chiaro, non significa concludere automaticamente che esse si siano concluse nel migliore dei modi possibili. Ciononostante, non è nemmeno possibile basare le valutazioni solo su elementi di ordine etico o morale, poiché raramente gli avvenimenti si verificano secondo questa logica”. 

Quindi, secondo lei, sono questi i limiti che vanno riconosciuti nella vulgata relativa al problema del fascismo nell’era repubblicana?

“Si tratta di una vulgata che può far presa in quanto il problema della giustizia è qualcosa che tutti quanti noi sentiamo come particolarmente importante. Vogliamo fare un altro esempio? Il fatto che Gaetano Azzariti, primo Presidente della Corte Costituzionale italiana fosse stato anche Presidente del cosiddetto “Tribunale della Razza” può essere senz’altro considerata una cosa abnorme, perfino grottesca. Ma bisogna considerare anche che questo signore fu collaboratore di Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia, nonché suo Capo di Gabinetto. E questa cosa, ovviamente, fu fatta notare da più parti a Togliatti, il quale però capiva l’utilità di avere a disposizione un alto e capace magistrato con un simile passato. Proprio il fatto di avere molte cose da farsi perdonare lo rendevano il migliore dei collaboratori possibili, del tutto prono agli ordini che gli venivano impartiti.”

Dunque è in quest’ottica che bisogna collocare la famosa “amnistia Togliatti”?

“Assolutamente sì. Togliatti, allora Ministro della Giustizia, promosse quella amnistia con il benestare di tutto il Governo. Tutte le forze politiche erano d’accordo che la guerra civile dovesse finire, e le guerre civili possono finire solo in due modi: o con un bagno di sangue – come è successo in Spagna – o  appunto con una amnistia, che costituisce un mezzo con il quali i vincitori fanno capire ai compromessi del regime di non avere interesse a perseguirli se essi saranno disposti ad accettare docilmente il nuovo corso politico”. 

Sembra strano, tuttavia, che una classe politica forgiata nella lotta partigiana permettesse ad un partito neofascista come il Movimento Sociale Italiano non solo di costituirsi già nel 1946, ma addirittura di entrare in Parlamento.

“Senza dubbio costituisce una apparente incongruenza, ma sono diversi i fattori che concretamente favorirono questo corso. Bisogna considerare innanzitutto che il fascismo, agli occhi di molti italiani, non era stato compromesso da una immagine di inaudita ferocia e crudeltà, come invece era stato per il nazismo. Il fascismo veniva percepito come una cosa diversa, e pertanto veniva dalla maggior parte delle persone visto sì con disapprovazione per molte azioni che esso aveva commesso, ma allo stesso tempo nutrendo per altre una forma di vaga nostalgia. Il sistema repubblicano ha tenuto conto di questo, cercando in qualche modo di “istituzionalizzare” la memoria del fascismo, una memoria che però era legata più al ventennio che all’esperienza della RSI. Non era consigliabile mettere al bando questa componente del panorama politico e culturale della popolazione, perlomeno penalmente. Sicuramente questo tipo di strategia fu dovuta ad un certo grado di opportunismo politico, soprattutto da parte della Democrazia Cristiana”. 

Questo punto di vista è molto interessante. Quindi lei mi sta descrivendo una strategia che permetteva di neutralizzare una memoria pericolosa costringendo i suoi fautori all’accettazione delle regole proprie del sistema democratico?

“Si tratta di una strategia, senza dubbio. Non bisogna dimenticare che il fascismo giocò un ruolo importante come fattore di costruzione e coesione dello Stato. Pensiamo ai Patti Lateranensi, ad esempio, che permisero di risolvere la “Questione romana” – aperta fin dal 1871 – e che furono recepiti all’interno della stessa Costituzione repubblicana. Questo atto, voluto da Mussolini, chiuse una delle grandi questioni rimaste irrisolte dopo la fine del Risorgimento, ed è superfluo sottolineare quanto abbia significato per un paese ferventemente cattolico quale era l’Italia. La Democrazia Cristiana, in particolare, aveva la necessità di salvaguardare qualcosa che, indirettamente, la riguardava molto da vicino”.  

Un’ultima domanda, Professore. Secondo lei, la mancata defascistizzazione ha giocato un ruolo imprescindibile nella collusione fra apparati dello Stato e terrorismo neofascista nel corso dei cosiddetti “Anni di piombo”, o comunque ciò si sarebbe ugualmente verificato?

“No, personalmente credo che si sarebbe verificato comunque. Lo dico sulla base di una analogia: agli inizi degli anni ’60 in Francia, dopo che il Generale De Gaulle ebbe firmato la pace con l’Algeria, nacque un fronte di estrema destra formato da molti membri del personale politico ed amministrativo. Tutto questo nonostante in Francia vi fosse stata, dopo il 1944, una fortissima repressione di stampo antifascista contro collaborazionisti e fascisti di Vichy. Ciò non ha comunque impedito, in un momento di crisi come quello dell’abbandono francese delle colonie, la pianificazione di colpi di Stato ed attentati, come ad esempio quello ai danni dello stesso De Gaulle”. 

Con la collaborazione di Dario Artale

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