FIDELIO, LA LUCE ENTRO LE TENEBRE

di Valerio Tripoli

FIDELIO, LA LUCE ENTRO LE TENEBRE

di Valerio Tripoli

FIDELIO, LA LUCE ENTRO LE TENEBRE

di Valerio Tripoli

«Come fu mai possibile che Fidelio, l’opera di Beethoven creata per solennizzare il giorno dell’autoliberazione tedesca, non fosse proibita in Germania? Era uno scandalo che non fosse proibita, che anzi se ne dessero rappresentazioni accurate, e che si trovassero cantanti per cantarla, suonatori per suonarla ed un pubblico per ascoltarla. Quanta ottusità ci voleva per ascoltare Fidelio nella Germania di Hitler senza coprirsi il volto con le mani e precipitarsi fuori della sala

Thomas Mann, Moniti all’Europa, 1947, Ed. Mondadori

Un cielo marmoreo copre Roma, il giorno dell’inaugurazione della Stagione sinfonica 2016-2017 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e intorno all’Auditorium la congestione è totale: chi va alla partita “da ‘a maggica”; chi si appresta a vedere dal vivo la bellissima Meryl Streep; chi rincorre gli ultimi film in programma della Festa del Cinema; chi si presenta acconciata all’inverosimile, per qualche aperitivo di grido; chi, pelliccia-vestita, con la gravità dei molti decenni sulle spalle, si mischia al pubblico giovane che tanto cattura gli sguardi di signori e mariti attempati; chi ci tiene a dire che non è lì per la Festa del Cinema, no, ma per “Pappaaano”, con moglie sotto braccio che precisa: “Noi ormai non manchiamo mai”. Una pletora infinita, con navette bus che nessuno sa dove conducano, taxi a centinaia, auto blu con sirene spiegate, tram bloccati: davvero, in una bolgia ci sarebbe meno casino.

Detto questo, confusi, si entra in una sala di Santa Cecilia che fa fatica a riempirsi, tanto che ci ricordiamo di essere a Roma e non altrove per i dieci minuti di ritardo con cui l’orchestra entra in sala. La platea è moderatamente invasa di volti noti, della politica, della moda, pochissimi del cinema: si intravede tanta parte della Roma benpensante conversare amabilmente con tanto di fotografi pronti per immortalare ogni abbraccio, ogni stretta di mano.

Entra il primo violino, Roberto Ganzáles-Monjas. Poi, lui, Sir Antonio Pappano. Fidelio, op. 72b, unico lavoro teatrale che Beethoven compose nei suoi cinquantasette anni di vita, continua l’immersione dei complessi dell’Accademia nel repertorio del colosso di Bonn, intrapreso la scorsa stagione con l’integrale delle sinfonie e portato avanti, quest’anno, con due concerti per pianoforte e orchestra e proprio con quest’opera inaugurale. Fidelio, la luce entro le tenebre

È, Fidelio, un Singspiel in due atti, genere teatrale tipico dell’area austro-tedesca che prevede l’alternanza di canto, recitativo e recitato secco (Die Zauberflöte di Mozart è forse l’esempio più noto del genere): la vicenda è ambientata in un tetro carcere ove giace Florestan, nemico del Governatore Don Pizarro, che lo tiene in isolamento e vuole eliminarlo prima che giunga il ministro Don Fernando, di cui Florestan è l’amico creduto morto. Sarà la moglie Leonore a salvarlo: infiltratasi nel carcere con il falso nome di Fidelio e presa a ben volere da Rocco, carceriere, riuscirà a penetrare nella cella del marito e a impedire che Don Pizarro lo uccida. Il finale è un tripudio al coraggio e alla virtù coniugale di Leonore.

Per ovvie ragioni di vocazione dell’Accademia e di spazi architettonici, l’opera è rappresentata in forma di concerto: niente regìa, niente scenografie; la mente dell’ascoltatore è libera dai vincoli di qualunque messinscena: deve solo concentrarsi sulla musica, può svanire in essa, e ogni forma si fa pura proiezione del pensiero: le dà sostanza il suono, colore il timbro, senso la frase musicale di volta in volta eseguita. È, questa, altissima operazione di estetica: la più essenziale, la più pura.

Temprata da una acclamatissima tournée in Europa, conclusasi trionfalmente al Musikverein di Vienna a inizio Ottobre, l’orchestra di Santa Cecilia è in uno stato d’elezione che le permette di sviscerare l’intera partitura con un amalgama omogeneo che, letteralmente, promana dalle mani di Pappano: qui, in Beethoven e con una eccellenza simile, ogni strumento si trasforma in voce, e tutti concorrono a dipingere in una aerea tavolozza delle pennellate che dire perfettamente coacervate al libretto sarebbe cosa riduttiva e banale: il carcere è tutto lì, nel suo gelo, nella sua claustrofobia, alitato materialmente da un complesso orchestrale che prende forma e figura di nuvola, tanto è maestoso ed impalpabile, soave ed inclemente. Fidelio, la luce entro le tenebre

L’ouverture, quella della versione definitiva dell’opera (1814), sarebbe beethoveniana nell’essenza stessa se tutti gli ottoni avessero avuto sin dall’inizio lo smalto dimostrato al secondo atto: le due ondate iniziali, incredibili, che si ritagliano tra il fragore degli applausi e il vuoto riempito dalla lontananza di due corni, fanno letteralmente tremare l’aria; dalle brume nebbiose di una foresta germanica si innalza il crescendo, amplissimo e lirico, e procede per maree degli archi che salgono come attratte da forza lunare; la stretta precipita come in un tuffo di cui non s’era calcolata l’altezza, in vertigine. Lo ripetiamo, molti fiati si sono affrancati al secondo atto; gli archi, tutti, parevano quelli, celeberrimi, di Vienna.

Quanto alle voci, il cast annovera nomi importanti: tre eccellenze, memorabili, una buona media, un punto di debolezza. Günther Groissböck è uno tra i migliori Rocco che abbiamo mai ascoltato: la voce è piena, ampia e tonante, la bellezza del timbro mai scurito o forzato tratteggia con statura la figura di un bravo carceriere e padre, che mai trascende il suo ruolo di sorvegliante dei carcerati in quello di strumento di tortura e morte; a ciò si presta il perfido Don Pizarro di Sebastian Holecek, la cui cavatina quasi caballettistica – che ispira molto da vicino il Carl Maria von Weber di Der Freischütz (Il franco cacciatore) – strappa con il suo “Triunph” il primo grande applauso; presenza scenica adattissima anche in una tale forma di concerto, voce scurissima, volutamente slabrata agli acuti, che sfuggono enormi e sempre in tono (non bellissimi, ma imponenti).

Su tutti, in un principiare del secondo atto con un preludio che pare preconizzare il Verdi più maturo di Don Carlos e di Otello, il Florestan di Simon O’Neill è a dir poco meraviglioso: l’aria è difficilissima, specie per la lunghezza delle legature e il finale annoverante svariate impennate verso l’alto a partire da una base già alta: moltissimi interpreti sono calanti, imprecisi o sforzati. O’Neill è perfettamente intonato, adamantino nel suono, agile tanto nelle ascese che nelle discese. E tale si mantiene per tutta la parte. Molto buono il resto del cast, con la bella Marzelline di Amanda Forsythe e il dimesso Jaquino di Maximilian Schmitt. Unico insoddisfacente è il Ministro Don Fernando di Juliam Kim, per una voce poco adatta ad esprimere la statura gigantesca tratteggiata dalla musica a tinte dantesche di questo deus ex machina, e fors’anche perché abitualmente è parte consegnata a un famosissimo baritono (spesso di impostazione wagneriana) e non di certo a un ragazzo che non possiede, giocoforza, la statura richiesta dal personaggio. Fidelio, la luce entro le tenebre

E Leonore, l’abbiamo scordata? Affatto. Il giovanissimo soprano americano Rachel Willis-Sørensen ha un’ottima agilità e una grandissima precisione, quanto a fraseggio e intonazione. Ma per Fidelio sono doti di partenza, non d’arrivo; la voce, molto bella, è piccola, e con un cast di uomini così agguerriti, in cui però la parte di Leonore rende tale donna molto più virile dei colleghi maschi, non basta a renderle giustizia. Tutto in tono, tutto in regola; eppure, la voce che dovrebbe far tremare la sala, è coperta dall’orchestra. Non male, insomma, se non ci fosse quest’insieme eccellente, ed ella non cantasse Fidelio.

Infine, si giunga al termine del secondo atto. La musica si quieta, e dalle latebre più fosche Pappano fa sorgere quella splendida ouverture composta da Beethoven nel 1806 (Leonore III) e poi sostituita con quella eseguita già al principio di questa rappresentazione (per qualche nota in più sulle ouverture, si veda questa nostra recensione su Fidelio alla Scala di Milano del dicembre 2014): è rea, infatti, di anticipare il suono dei tromboni annunciante l’arrivo del Ministro, anticipando la risoluzione finale e smorzando l’effetto sorpresa previsto dal libretto. Dunque, estinto tutto? No, perché Gustav Mahler, direttore prima ancora che compositore, prese a frapporla nel cambio scena tra secondo atto e finale. E di questa inserzione (oggi in disuso) Pappano fa dono al pubblico di Santa Cecilia che, davvero, scivola dalla sedia di passione, di fremito e rapimento. Poi, la marcia, ed entra il magnifico complesso corale dell’Accademia diretto da Ciro Visco: questa è la perfezione della vocalità unita insieme e fatta Coro.

Tra le pagine più belle mai messe in musica, si assiste dunque al Finale: sembra un Credo da Missa Solemnis, una Freude da Nona sinfonia, con il tuono del tenore che tiene testa ai cerchi sonori che si innalzano alle spalle, sublimi. Il carcere sparisce, e l’inno alla libertà si spande come tratteggiato con le pennellate di un nuovo Michelangelo, in una immensità che travolge la sala di Santa Cecilia, che esplode in evviva.

A distanza di ore, tornando a casa in una Roma senza bus, senza ordine, senza dignità, si ha voglia di piangere. Gli uomini, si sa, vollero piuttosto le tenebre che la luce. Quantunque, la luce, la vedano più spesso di quanto sembri loro.

Photos: Musacchio e Ianniello, da Accademia Nazionale di Santa Cecilia

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