I FASTI DEL BENVENUTO CELLINI ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

I FASTI DEL BENVENUTO CELLINI ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

I FASTI DEL BENVENUTO CELLINI ALL’OPERA DI ROMA

di Valerio Tripoli

Roberto Abbado sale sul podio della sua unica direzione stagionale al Teatro dell’Opera di Roma trovandosi di fronte il golfo mistico completamente invaso da un’Orchestra di proporzioni wagneriane: quattro corni, due arpe, tutti i reparti degli archi rinforzati, trombe e tromboni schierati come ai lati di un corteo regale, percussioni in gran copia. Il colpo d’occhio è di sicuro effetto. In più, un sipario elegantemente calato, come sempre più raramente appare nei teatri, piuttosto che una scena aperta già in mostra a chi entri in sala; ai lati, nientemeno che due grandi mascheroni in cartapesta, un teschio alla sinistra, un nero volto contratto in una pernacchia a destra. Questo, l’impatto visivo a sipario calato del Benvenuto Cellini di Hector Berlioz, mancante da Roma dal 1994, quando ebbe la regìa di Gigi Proietti.

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Si sa come Cellini, scultore orafo scrittore argentiere artista fiorentino, (così recita il primo rigo di Wikipedia), campione di un manierismo tutto italiano esportato in Europa e soprattutto in Francia, nella Fontainebleau di Francesco I, abbia consacrato la sua fama sia per l’opera artistica propriamente intesa, sia per la sua raffinata, godibilissima Vita, impresa letteraria che si pone, rispetto a ciò che sarà genus nei secoli Sette e Ottocento, quale vero e proprio antesignano. Da essa, Berlioz trae la sua prima fatica teatrale.

La prima versione è del 1838, a Parigi. Quella definitiva, dopo alcuni consigli dati a Berlioz nientemeno che da Listz, data in Weimer nel 1852. Ed è questa, con qualche taglio, quella che viene rappresentata all’Opera.

Della vicenda, ambientata in Roma, intricatissima, si dica solo che Cellini ama ricambiato Teresa, figlia di messer Balducci, tesoriere del Papa Clemente VII (il papa del Sacco di Roma, per intenderci). Ella è promessa sposa a Fieramosca, artistucolo, che serve al libretto per inscenare vari equivoci e scambi di persona, nel bel mezzo del Carnevale romano. Su questo schema si innesta la commissione che il papa in persona (il cardinal Salviati, nella versione originale, per via della censura) fa a Cellini, del famoso Perseo, situazione, questa, che occupa il terzo atto dell’opera, fino alla scena finale della fusione.

Un’opera affatto facile, da dirigere e suonare, per tempi variantissimi, uso di una massa orchestrale insolita per l’epoca della prima messa in scena, nonché per dinamiche orchestrali che paiono spesso spaccare in due l’orchestra, di cui una parte suona in fortissimo, l’altra, in tutta risposta, esegue in pianissimo, pizzicato, sommersa subito da un nuovo ululato in fortissimo. benvenutoCellini_630

Non si può fare a meno di notare una somiglianza ravvicinata con il primo Wagner del Liebesverbot (Il divieto di amare) e, soprattutto, del Rienzi, anche per la comune ambientazione romana. La musica accompagna ogni movimento dei personaggi in scena, e questo è indizio di una via che scorrerà dritta sino ai grandi capolavori wagneriani ove, non già i movimenti, ma un universo recondito di moti dell’animo sarà letteralmente dipinto in ogni suono emesso dall’orchestra: per adesso e ancora, Berlioz ci offre riuscitissime scene di popolo, con Coro che invade totalmente la scena, gonfia il suono e lo riversa, potente, in una sala teatrale entusiasmata. Ciò avviene nel turbinoso Carnevale, alla chiusa del second’atto, nonché nella scena della fusione, al Finale dell’opera, quando sotto alle gigantesche gambe del Perseo risultato dalla fusione di tutti i capolavori precedenti di Cellini si annida un Coro di maestranze che, con un’orchestra spiegata a mille, alza un inno ai maestri cesellatori. Come non pensare, anche qui, al Wagner dei Meistersienger (I maestri cantori di Norimberga), ma prima ancora del Tannhäuser? Meno incisiva la musica è nelle scene a solo, ove può risultare meno caratterizzante, ma riproduce – in modo artigianale, sì, ma modernissimo – le parole del libretto con suoni orchestrali (un “Vesuvio” citato nel testo chiama con sé ottavino e archi a significare lo schioppettare del fuoco). Pure, è musica ispirata nell’aria di Cellini, in apertura del Secondo Atto, e ricorda da vicino il Rossini comico nelle scene in casa di Balducci al Primo Atto. 84140

Tutti applauditi, di gran lena, i cantanti: assai raramente si manifesta un cast così preparato e valido sulle scene dell’Opera di Roma: d’altronde, una partitura così ardua, solo da cantanti di prima scelta può essere sostenuta. I migliori, il Cellini di John Osborn e la Teresa di Mariangela Sicilia: lui, autentico tenore di grazia, compensa un volume non eccezionale con una chiarezza del fraseggio, un suono argenteo degli acuti, un canto in maschera che spesso risale sino al falsetto senza mai far notare il passaggio; lei, bellissima, migliora sempre con il succedere dell’opera: canta la prima aria gradevolmente,  migliora in duetti e terzetti e, cosa molto difficile, eccelle nelle scene d’insieme, ove riempie con il suo volume un palcoscenico su cui cantano centinaia di voci. Ottima la prova dell’Ascanio, amico di Cellini, di Varduhi Abrahamyan, mezzosoprano che canta nel ruolo en travesti: belli gli acuti, meno il registro centrale, ma la prova è soddisfacente. La tonante voce del basso Marco Spotti nel ruolo di Papa Clemente fiancheggia il buon Balducci di Nicola Ulivieri e il meno bravo Fieramosca di Alessandro Luogo: ma, davvero, stiamo forse rassegnando troppo da vicino la prova eccezionale di un cast, tutto di rara efficienza.

Orchestra: dalle premesse lo si è forse capito. È irriconoscibile la prova data dai maestri dell’Opera, altre volte alle prese con oscillazioni di tempi, vuoti, volumi discutibili, quando non addirittura con autentici strafalcioni. Alla bacchetta di un Roberto Abbado – che invochiamo come più presente all’Opera di Roma e di cui ad oggi si ringrazia almeno la solita unica presenza stagionale – i maestri rispondono solerti: la difficile prova dell’orchestra è egregiamente superata.

Il Coro, diretto dal sicuro Roberto Gabbiani, in stato di grazia: vuoi per la partitura autenticamente a lui dedicata, il Coro di Berlioz abbandona il solito ruolo di recinto tra il pubblico e i personaggi in scena che talora svolge, per divenire vero protagonista, come poi solo con Verdi e Meyerbeer saprà essere.

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Ma, signore e signori in Roma per questa settimana di Pasqua: fino al 3 Aprile l’Opera di Roma offre a voi la possibilità di assistere al trionfo di una macchina teatrale spesso poco o male utilizzata, grazie a questo nuovo allestimento in coproduzione con la English National Opera e De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam. La regìa di Terry Gilliam (co-regìa e coreografia di Leah Hausman) è, veramente, grandiosa: un complesso a là Escher è casa, laboratorio, podio per una pantomima di carnevale. Scale, finestre, logge ne fanno cogliere tutte le prospettive e i piani più disparati; un gigante testone dorato è spostato con effetto assicurato per la scena, inclinato dall’alto da un forsennato Cellini, poi accostato in trionfo alle gambe del Perseo nella scena finale. Ma, soprattutto, sono il Carnevale e la Fusione a esplodere: il primo vede acrobati spericolati che trasportano l’Opera al Circo di Montecarlo; spari di coriandoli al termine della lunghissima ouverture colorano tutta la sala e, da ruffiani quali sono, fanno presa sul pubblico, il cui delirio è assicurato. E alla pantomima segue il turbinio finale, con il cannone di Castel Sant’Angelo che segna l’inizio della Quaresima, con uno scheletro e altri orridi figuri che falcano una festa trasformatasi in Trionfo della Morte.  Alla Fusione, le maestranze dell’officina del Cellini (sindacati di industria, più che maestranze da officina fiorentina del Cinquecento), si arrampicano su funi sospese; coriandoli, alla riuscita fusione, si arruffianano ancora e definitivamente un pubblico che non sta più nella pelle: applaudire, gridare, gioire, del trionfo di un teatro che mostra, stavolta, tutte le sue immense potenzialità.

di Valerio Tripoli, all rights reserved

2 risposte

  1. In questo commento faccio riferimento solo alla parte relativa all’Orchestra.

    Questo articolo fa parte di una lunga schiera di articoli sull Orchestra del Teatro in cui si palesa un fenomeno a mio avviso paradossale. Non c’è esecuzione dell’Orchestra che non raccolga il plauso dei giornalisti, ma in questo articoli positivi si fa riferimento incredibilmente spesso a esecuzioni “indecenti” di un passato non identificato? Ma quali sono queste esecuzioni nessuno mai lo dice e invece l’elenco ininterrotto dei commenti positivi si allunga. Perché questo fenomeni avviene lo considero un mistero. Quando l’orchestra suona bene la cosa viene presentata come un miracolo, ma se questo miracolo avviene sempre perché considerarlo tale? Diciamo che è una moda giornalistica!

    Poi questo articolo V. Tripoli contiene anche un altri aspetto curioso: le oscillazioni di tempi e i vuoti di sonorità sono da imputare al direttore di turno non al l’orchestra. E questi “strafalcioni” di passate esecuzioni che si ritiene tanto utile citare oggi in occasione di in quale prestazione quando sono avvenuti? Si può citare qualche caso?! Di che strafalcioni si parla? Il mistero è sempre più misterioso.

    Diciamo che parlare male dell’Orchestra del Teatro fa chic, però non trovando l’occasione per farlo ascoltandola, lo si fa per sulla fiducia…. vabbé!

    1. Sig. Fabio, la ringrazio per il commento e mi scuso se la risposta tarda di qualche giorno. Lei ha forse ragione quando dice che le mancanze cui si fa cenno in questo e nei precedenti articoli non sono circostanziate: la volontà di non tediare il lettore con riferimenti eccessivamente puntigliosi a vecchie recite che magari non si ricordano ha prevalso sul bisogno di argomentare meglio giudizi non troppo lusinghieri sull’orchestra. Non dispongo di registrazioni da porre sotto un’analisi comparativa di ciò che, più o meno erroneamente, ritengo giusto o sbagliato nell’esecuzione in teatro. Ma, sottolineo, non si parla di errori da matita blu, di quelli da cui la professionalità di voi maestri d’orchestra ci mette al riparo. Se cercasse una recensione del Barbiere di Siviglia dello scorso febbraio, non la troverà: il dispiacere per un’esecuzione purtroppo terribile già nella sola sinfonia della prima ha prevalso sul giudizio bacchettante che, davvero, quella volta veniva a chiunque facile dare (ricorda l’oboe?). Mi riferisco ad un’espressione del suono per la quale il direttore d’orchestra poco ha da fare, a meno che non sia stabile o non crei con voi un rapporto che mi rendo conto benissimo è difficile stabilire ad ogni allestimento e con ogni direttore. L’incertezza esecutiva generale, gli archi spesso fuori sincrono, le percussioni per i fatti propri, mi creda, sono da molti spesso notati in sala, e non mi venga a dire che si scioglie per ogni commento positivo dei giornalisti cui fa riferimento, perché non la ritengo così ingenuo da entusiasmarsi dai plausi positivi di chi, spesso, non ha idea neppure di cosa scrive. Non vengo più ai balletti (ove le mancanze si scoprono tutte) per questi motivi, una resa generale insicura del suono, forse dovuta a poche prove, forse all’alternanza di direttori, l’ultimo onorario dei quali ha gettato un velo nero su un teatro che, pure, stava facendo di tutto per trovare la sua strada. Questa strada pare da qualche tempo averla trovata per merito di tutti voi. Non creda che cerchi facili consensi da lamentele generiche sull’orchestra: li troverei più velocemente se dicessi molto male di un cantante o della regìa, cose su cui ormai più si soffermano commentatori e lettori. Errori, possono essercene dovunque, e nessuno è in teatro per sanzionarli. Ma quando le parlo della resa generale, di un suono non placido, non sicuro, sempre incerto all’orecchio di chi ascolta, e le dico che questa impressione è diffusa, in Galleria, poi è chiaro che, se non di miracolo, siamo tutti molto felici nel notare l’eccezionale riuscita. Occasionale, miracolosa? Speriamo tutti di no, e sappiamo che non è così. Però, glielo dico in sordina, in sala non si sta sereni come quando si ascolta qualcosa all’Auditorium…

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