"E'stato il figlio", non di lupara ma di giudizio.

di Marica Dazzi

"E'stato il figlio", non di lupara ma di giudizio.

di Marica Dazzi

"E'stato il figlio", non di lupara ma di giudizio.

di Marica Dazzi

La reputazione, il rispetto, l’onore, il giudizio della gente.
Siculamente parlando questi concetti  prosaici che della nostra isola hanno fatto la fama e il colore, non possono essere limitati al plateale risentimento del “cornuto”, o alla millantata amicizia del politicante rinomato resa pubblica da fantasiose dissertazioni in piazza.
Lo sguardo del paesano fermo sull’etichetta del vestito che indossi o sul piatto che al ristorante decidi di ordinare, i racconti futuristici dei nonni in piazza sui nipoti che laureandi lo sono almeno da sei anni, i fantasmagorici posti di lavoro ottenuti grazie all’ingegno nato e cresciuto da solo con i racconti dei parenti, i dottorissimi definiti tali per la sola licenza media (ma un deciso savoir-faire), le vacanze pittoresche trascorse in località remote, proiettate a grande luce dalla propria immaginazione sulla mansarda di casa dove ci si è barricati dentro, a mangiare scatolette di tonno per una settimana affinché non si possa pensare che (per carità mai) non ci si possa permettere altro che arrostire il proprio timido sedere sulla discutibile spiaggia a mezz’ora di strada, i mirabolanti matrimoni lucidi di sfumature e pailettes inappropriate che insieme ai figli chiamano debiti che non si finirà di pagare fin dopo il divorzio, le macchine grosse, grosse quasi più della casa, investimento lussurioso e irrinunciabile, vanno aldilà della qualsiasi definizione che possa essere data con nettezza semplicistica.
E’ uno status-quo che Verga ha guardato passeggiare nei suoi occhi e scivolare sul suo inchiostro, che, negli anni, ha camminato sulle gambe di personaggi cinematografici, letterari, e, in maggioranza, reali.
L’ostentazione di ciò che non si può ma si palesa con rabbia lo stesso, quasi a sfidare una sorte che fatalmente si tende a ritenere come un evento che passivamente è solo possibile subire e nient’altro, quasi a disgrazia, quasi a giustificazione, è lo spirito del paesano di provincia, che non accetta che il vicino abbia una sfumatura sulla facciata di casa più sgargiante  della propria.
E’ lo sfondo della terra più ricca e miserabile del meridione che si riflette nel nostro sguardo e nel modo di pensare.
Ma è anche lo sfondo di un film affascinante e irriverente nel suo disincantato cinismo come quello presentato a Venezia alla Mostra Cinematografica della Biennale 2012 da Daniele Ciprì, che, con taglio graffiante, avvalendosi di un attore protagonista dal talento maestoso come Toni Servillo, racconta la storia della famiglia Ciraulo, spezzata dalla perdita della propria bambina, uccisa in una sparatoria, e che, ricevuta un’ingente somma dallo Stato, tesa tra l’inverosimile possibilità di emancipazione e l’incapacità di gestire anche solo l’ipotesi di questa nuova vita, decide con i soldi ricevuti di comprarsi una Mercedes, simbolo della miseria della ricchezza, come commentato da Servillo stesso, che, nell’omonimo libro di Alajmo da cui è stato tratto il soggetto, era rappresentata invece da una cupa Volvo nera.
Grottesco, imprevedibile, estremo, tra personaggi al confine del ridicolo e scene tanto inverosimili da scatenare uno sfrenato divertimento, il regista realizza un affresco che tocca tutte le sfumature dello scenario contraddittorio che ha deciso di raccontare.
Girato in Puglia ma ambientato allo Zen di Palermo, “E’ stato il figlio” è un film che lo stesso regista ha raccontato aver temuto inizialmente di realizzare, è la storia di una famiglia comune, vittima di una tragedia e vittima di se stessa.
Una pellicola dai toni esasperati e straordinari, così inquietanti da risultare esilaranti.
In una parola totalmente italiana.
Una Sicilia che spiega il suo incontro con il consumismo degli anni ’70, balcone su una nuova modernità, e che per restare in tema, si traduce in una sfarzosa tragedia che consigliamo non perdervi.
   di Maricia Dazzi
 

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