ERNANI GRAND STYLE. UOMINI ALLA RISCOSSA

di Valerio Tripoli

ERNANI GRAND STYLE. UOMINI ALLA RISCOSSA

di Valerio Tripoli

ERNANI GRAND STYLE. UOMINI ALLA RISCOSSA

di Valerio Tripoli

Giunge, come sempre, annunciata da ampi approfondimenti giornalistici e veicolo delle rivendicazioni sindacali, che ne sfruttano la visibilità per avanzare le pur giuste pretese delle maestranze teatrali, l’ora della prima. Con la rappresentazione di Ernani, opera in quattro atti di Giuseppe Verdi, del 1844, su libretto di Piave, il teatro Costanzi apre la nuova stagione teatrale e, insieme alle eminenti prime del San Carlo, a Napoli, nonché del teatro scaligero, a Milano (rispettivamente, il 5 e il 7 dicembre, con Aida e La traviata), chiude l’anno dedicato alle celebrazioni del bicentenario della nascita di Verdi. Opera notissima al mondo degli appassionati, meno al grande pubblico, Ernani si classifica come estrema fatica per il direttore onorario dell’opera romana, termine (almeno per il momento) di una lunga teoria di direzioni verdiane, che negli ultimi quattro anni ha annoverato ben sette titoli del compositore di Busseto, a fronte di un totale di otto spettacoli diretti al teatro Costanzi. E, come per i sei precedenti, le cronache giornalistiche successive al debutto si sono arrovellate a ricercare o coniare nuovi immagini roboanti che potessero pallidamente significare il successo – che diciamo? – trionfo, riportato in teatro dalla sua direzione.

Eppure, la direzione di questo Ernani è rivoluzionaria sotto alcuni aspetti: rimane l’imperativo di eseguire l’opera nella sua versione integrale, senza impertinenti (e, fortunatamente, ormai in disuso) tagli a sezioni della partitura; si mantiene e, se si vuole, si approfondisce, l’attenzione meticolosa ai recitativi – punti di forza dei lavori verdiani; medesime anche le due voci che più hanno raccolto consensi in questi anni di messe in scena dirette dal direttore onorario: Francesco Meli, tenore, nel ruolo di Ernani, e Ildar Abdrazakov, basso, che interpreta don Ruy Gomez de Silva. Oltre ciò, tutto ci è parso diverso rispetto alle precedenti direzioni. Diverso, e migliore.

Il soggetto della vicenda è paradigma infallibile della miglior tradizione operistica degli anni in cui Donizetti, Bellini e il giovane Verdi (“sempiterne pomate curative delle glorie nazionali” dirà Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo) fondavano il nuovo melodramma storico e romantico, dopo che quello vecchio e classico era stato spazzato via dal meteorite che gli era piombato addosso, catastrofe nota al mondo col nome di Gioacchino Rossini. Don Giovanni d’Aragona, conosciuto col nome di Ernani e postosi a capo della ribellione dei comuneros contro l’ascesa al trono di Carlo d’Asburgo, ama riamato la nobildonna Elvira, a sua volta amata dal re Carlo in persona e dal vecchio zio, Silva. Ernani, presentandosi come pellegrino al castello di Silva, che gli promette ospitalità, viene da questi nascosto al re Carlo, che in cambio del ribelle porta via con sé l’amata Elvira. Silva brama vendetta contro Ernani, ma il ribelle rifiuta lo scontro per l’età avanzata del vecchio, e promette a Silva di uccidersi, solo dopo essersi a sua volta vendicato del re Carlo. Questi, nel frattempo eletto imperatore Carlo V, scopre la cospirazione, ma Elvira intercede per i condannati a morte e ottiene il perdono da Carlo V, nel tripudio generale. È qui che si apre il IV atto, brevissima e tragica postilla, ove la promessa fatta da Ernani al vecchio Silva deve trovare adempimento: il giovane si uccide e ha salvo l’onore.

Si comincia con il tempo d’attacco al preludio, che rivela che qualcosa, nella direzione del direttore onorario, non va o, meglio, va rispetto al solito, che non andava: non c’è mollezza, blando rimestio di suoni che s’impaludano (si riascolti il preludio al Simon Boccanegra dello scorso anno, ove l′eleganza è giunta a un grado così esasperante da divenire, in una parola, pacchiana), neppure fretta (come il preludio al Macbeth del 2011, vedovo della sua aurea spettrale), piuttosto v’è un agile susseguirsi dei suoni prima dei fiati, che intonano il motivo del giuramento di morte di Ernani, causa della tragedia finale, poi dei legni, che fanno dimenticare per un atto e mezzo la sciagura e proiettano scena e ascoltatore nell’area estatica del melodramma d’amore vero e proprio. Il crescendo c’è e si sente, finalmente non è opaco e timido (proprio perché l’eleganza che non sa essere elegante diviene, nei casi migliori, fastidiosa timidezza): il preludio è, finalmente, preludio.

Nel I atto, Ernani, Elvira e Silva avrebbero ognuno un’aria di presentazione (cavatina, stando alla nomenclatura tradizionale) seguita dalla cosiddetta cabaletta, pirotecnica sfuriata vocale dei sentimenti del personaggio che canta, che di norma viene ripetuta, con variazioni in bravura nella seconda parte: il direttore onorario è solitamente perentorio nel divieto di eseguire tali variazioni, a discrezione degli interpreti (tranne che in pochi casi, come il Bellini de Il Pirata, che annota le variazioni sullo spartito), e non ci si spiega come mai sia a Ernani nella cabaletta della prima scena, sia a Elvira nel quadro successivo, queste variazioni siano state accordate (che poi le variazioni siano in bravura si nota però solo nel tenore, poiché il soprano varia tutte le difficoltà verso i suoni centrali, evitando i funambolici salti di cui la sua cabaletta pure è disseminata). Ovviamente, celate nelle solenni camere della mente del direttore onorario, stanno le ragioni che l’hanno spinto ad adottare la prima versione dell’opera, composta per il teatro La Fenice di Venezia e rappresentata il 9 marzo del 1844, piuttosto che quella eseguita nel settembre dello stesso anno a Milano, che prevede l’aggiunta della cabaletta anche per il basso (Infin che un brando vindice): irragionevoli, tali ragioni, lo sono essenzialmente perché la qualità dei due bassi che si alternano nel ruolo di Silva sono tali da meritare questo slancio vocale che tale cabaletta permette loro. La filologica ripresa della primissima versione dell’opera, senza l’inserimento della cabaletta di sei mesi successiva, può forse cedere all’eccellenza di due voci, nonché alla bellezza e potenza espressiva di questa aggiunta? Potrebbe, dovrebbe, forse, ma non quando a impugnare la bacchetta è l’eletto al monte delle Muse verdiane, ove è stato condotto, quale redivivo Ennio, da Verdi in persona sull’esempio del sacro vate Omero.

Eccezionale, maggiore rispetto al solito, è la cura dei recitativi, che stavolta è condotta, oltre che da un’orchestra per niente claudicante, dal fraseggio dei solisti maschili non solamente accurato, non soltanto scrupoloso, bensì perfetto: le mezze voci si aprono in spiegati crescendi, i suoni gravi non sono emessi di petto, i legati sono tutti al loro posto, ogni nota è, davvero, come Verdi l’ha scritta.

Si è fatto passim riferimento alla qualità del cast radunato per questa messa in scena romana dell’Ernani: sotto il profilo e vocale e teatrale, il cast maschile di questo Ernani è, senza temere di esporci assai, stellare. Stellare perché raduna insieme il miglior tenore verdiano degli ultimi anni, uno tra i pochissimi baritoni che siano vocalmente baritoni, e i due migliori bassi (nei due cast che si alternano) in piena attività, non alla fine della carriera, che il mondo dell’opera di questo primo ventennio del XXI secolo annoveri. Francesco Meli, Ernani stupendo, focoso, passionale, attento, nobile e non sfegatato masnadiero, stupisce, prima ancora che nella prima aria, nel brevissimo eppur famosissimo recitativo della prima scena dell’atto I, Mercé diletti amici, per poi eccellere e nell’aria del II atto, Oro, quant’oro ogni avido, e nel duetto con Silva, basso, sempre nel II atto, in cui si fronteggiano sulla scena due veri giganti. Luca Salsi, re Carlo I di Spagna nel I e nel II atto (anni 1518-1519 circa), imperatore Carlo V nel III atto, non solo anagraficamente corrisponde a un re giovane che dovrà avere ancora la forza e la volontà di reggere l’Europa sino al 1556, nonché di vivere sino al 1558, ma finalmente fa cantare insieme le corde dell’amore, dell’orgoglio, della regalità, quale solo i baritoni verdiani sanno e possono fare. Eccellente nel duetto dell’atto I con Elvira, è vero amante nel Vieni meco, sol di rose del II atto (dopo il quale è veramente difficile credere che Elvira parta con lui contro voglia), per poi ascendere al Parnaso nella grande scena iniziale del III atto, ove la cosa più bella non è l’aria in sé (troppo viva è l’eco dei grandi baritoni del secolo precedente che l’hanno intonata), quanto il recitativo a mezza voce con lo scudiero reale don Riccardo, Antonello Ceron, che è prova di eccellenza, di scrupolo, di vera comprensione del senso dell’opera di Verdi da parte del direttore onorario (a lui il giusto riconoscimento). E con loro (non diremmo su di loro, come pure è stato detto) il basso Ildar Abdrazakov, che si alterna con chi, forse, sarà davvero sopra di loro (Ildebrando d’Arcangelo, nel secondo cast), don Ruy Gomez de Silva, primo di Spagna, nobile, solenne, aristocratico nel senso più etimologico del termine: potente, intimo, elegante nella giusta misura nell’aria Infelice, e tuo credevi del I atto, ineccepibile in tutti i duetti, terzetti, concertati in cui è coinvolto, è davvero figura vittoriosa di questa messa in scena.

Tutti i destini (meno che del re, ormai imperatore), si esaltano, però, nel breve, rapido atto IV, quasi appendice all’opera, dopo il concertato con cui si conclude il III atto; qui l’implacabile Silva, ultore, carnefice e nobile insieme, ritorna e spazza via l’irrisione dell’amore, la vagheggiata felicità cui si tende per tutta l’opera, per chiudere ad anello, nella tragedia e nell’implacabile destino di morte, un’opera che per la sua musica è talmente straripante di forza che potrebbe infiammare lo spirito più vile. E, davvero, nel terzetto e nel finale, tutti gli ascoltatori, se forti, capaci di intendere a egregie cose, vengono dai solisti maschi e dall’orchestra sublimati.

Di una presenza abbiamo taciuto: Elvira. Lo spettacolo è troppo degno di nota, il direttore onorario troppo lontano dalle precedenti direzioni, perché possiamo lordare il giudizio fin qui espresso con l’indugiare in improperi a Tatiana Serjan. Lei, da grande artista come pure pare essere, comprenderà da sola l’insolenza delle note da lei emesse dalla sortita dell’atto I al finale ultimo. Anna Pirozzi, che la sostituirà nella sola recita del 12 dicembre prossimo, crediamo risparmierà al pubblico i volgari echeggi di una voce stridula e messa alla prova dal rigido clima di queste settimane, le cui note calanti, durante il concertato del finale I atto, potevano essere distinte persino dai lampadari.

Solida presenza delle rappresentazioni del Costanzi il Coro, diretto da Roberto Gabbiani, che eccelle in ogni suo intervento: scontato dire che con una simile compagine vocale, il coro maschile Si ridesti il leon di Castiglia instilla nell’animo un ardore di viscontiana memoria, qual è quello che si avverte nella scena d’apertura di Senso.

Della regia tutto il bene di questo mondo è stato detto, a buon diritto: lungi da qualsiasi personale rivisitazione, Hugo de Ana è interprete attento di tutte le esigenze del libretto, curatore instancabile di tutti i dettagli sulla scena (l’apice lo raggiungono gli abiti delle dame di Elvira, l’uno diverso dall’altro): se, in aggiunta, tutto viene calato in un′austera scenografia dalle linee pre-barocche, che fa del bugnato e delle paraste composite gli elementi architettonici dominanti, si giunge a un′onesta, accurata e bella messa in scena, che dovrebbe soltanto far scuola in ambito di regia operistica.

“Tutto cangia, il ciel s’abbella”: un cast maschile invidiabile, una regia da antologia, un Coro come sempre protagonista; un deus ex machina, il direttore onorario, insperatamente irriconoscibile. Eppure una cosa si riconosce sempre: il becero populismo del giornalismo, commentatore delle messe in scena del direttore onorario, forgia instancabilmente immagini iperboliche (per quanto ancora saremo al riparo da chissà quali neologismi?) per rendere l’idea del successo, a detta sua sempre più incontenibile. Il pubblico del Costanzi, però, sempre alquanto frigido rimane: in altre città e con un pubblico più cosciente di sé le balconate e le balaustre del teatro non avrebbero retto l’urto degli strepiti. Essendo a Roma, l’unico effetto è qualche applauso un po’ meno timido, nonché l’osanna personale di un direttore, cui troppe volte (non questa) si sono tributati immeritati te deum.  

di Valerio Tripoli, all rights reserved

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