ELETTRA E ALCESTI AL 52ESIMO CICLO IN SIRACUSA

di Aretina Bellizzi

ELETTRA E ALCESTI AL 52ESIMO CICLO IN SIRACUSA

di Aretina Bellizzi

ELETTRA E ALCESTI AL 52ESIMO CICLO IN SIRACUSA

di Aretina Bellizzi

Elettra di Sofocle e Alcesti di Euripide

Si è aperto da pochi giorni il cinquantaduesimo ciclo di rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa. Il 13 maggio è stata la volta dell’Elettra di Sofocle, il 14 quella dell’Alcesti di Euripide. Le due tragedie si alterneranno fino al 19 giugno; dal 23 al 26 giugno completerà il ciclo la Fedra di Seneca.

La regia di Elettra è di Gabriele Lavia, quella di Alcesti di Cesare Lievi. A loro è affidato il compito di rendere fruibile al pubblico di oggi drammi antichi di millenni,  scritti per lo spettatore ateniese di V secolo a. C. Drammi con cui, peraltro, la cultura di ogni tempo si è confrontata, sì da subire una tale quantità di riletture e riscritture, interpretazioni sempre nuove e spesso differenti, da diventare estremamente difficile coglierne l’essenza e restituirla il più possibile integra allo spettatore odierno.

Elettra è tragedia con al centro le vicende dei figli di Agamennone, Oreste e il ruolo del titolo. Oreste, unica speranza di vendicare la morte del padre, ucciso dalla moglie Clitemestra, è creduto morto dalla sorella fin quando, fatto riconoscere, si preparano all’azione: Oreste uccide la madre, e Egisto, l’amante, quando sulla scena crede di trovare il cadavere di Oreste, scopre proprio quello di Clitemestra. Ormai senza scampo si lascia uccidere. federica-di-martino_coro-fanciulle

La regia di Lavia procede per negazione piuttosto che per aggiunta, fino ad arrivare al nodo, ad isolare le scene fondamentali della tragedia e restituirgli potenza. Pur di perseguire un tale obiettivo, Lavia ha rinunciato a scegliere, ha sacrificato il suo punto di vista. La sua regia si configura quest’anno come la scelta di non scegliere, di non reinterpretare o sovrascrivere l’Elettra. Affida il compito di riempire la scena al Coro e agli attori, tutti molto intensi a cominciare da Federica Di Martino che interpreta la protagonista, ripiegata su se stessa, rabbiosa come una cagna furiosa, consumata dalla situazione di schiavitù cui è costretta, dal dolore per la lontananza di Oreste e dal desiderio frustrato di vendetta. Elettra, la donna che non si piega di fonte al potere e all’ingiustizia, appare sulla scena piegata da questo suo non piegarsi. Fa effetto vedere così ridotto un personaggio sofocleo che avevamo immaginato incedere sicuro di sé, a testa alta, ma proprio nella riduzione operata da Lavia scorgiamo la potente e strabordante umanità della protagonista e tutta la tragicità della vicenda. Potente sulla scena è anche Citemestra raffigurata come una madre snaturata. Elettra la accusa di aver ucciso il padre Agamennone per liberarsi di un peso e vivere in libertà la sua relazione con Egisto, ormai padrone del palazzo. 12472523_10153622522348773_6458933729363563925_nLe accuse di Elettra diventano ancor più vere quando viene annunciata la morte di Oreste: Clitemestra, invece di piangere la perdita del figlio, festeggia il giorno della ritrovata libertà. Ma Oreste si è finto morto per tornare a casa del padre e vendicarlo uccidendo la madre, con la complicità di Elettra, istigatrice. Maddalena Crippa (Clitemestra) rende perfettamente nella voce e nei gesti la tensione nervosa di una donna che abdica al suo ruolo di madre e che è tanto contraria alla natura da farsi uomo. A tratti sembra di scorgere, dietro e oltre la Clitemestra sofoclea, quella dell’Agamennone eschileo: ma, se nell’Orestea si era mostrata decisa e inflessibile nel compiere il suo progetto qui, nell’Elettra, rivendica con orgoglio il fatto compiuto. Ed è l’opposizione Elettra-Clitemestra a caratterizzare e riempire il dramma tanto da far passare in secondo piano il pur tragico evento del matricidio di Oreste. Pochi gesti ben calibrati e molta rabbia da una parte e dall’altra rendono bene sulla scena questo contrasto, giustamente centrale e altamente drammatico. Il testo (tradotto da Nicola Crocetti) sensibilmente e consapevolmente tagliato, preserva i nodi drammaturgici essenziali a delineare la vicenda di una donna rimasta sola e che pur essendo sola non rinuncia a combattere per ottenere la sua vendetta.

Molto bravi anche Jacopo Venturiero nel ruolo di Oreste, Maurizio Donadoni in quello di Egisto, Massimo Venturiello nel ruolo del Pedagogo e Pia Lanciotti in quello di Crisotemi.

*       *        *

Una linea registica ben definita è invece leggibile nella messa in scena dell’Alcesti, la più antica tragedia superstite di Euripide (438 a. C.): Admèto, destinato dal fato a morte prematura, ottiene da Apollo di poter rimanere in vita, se altri si offrirà di morire al suo posto. Tra tutti, è la moglie Alcesti l’unica a offrirsi. Muore, la moglie, e Admèto, presso il quale giunge Eracle, nasconde all’ospite la vera identità della defunta. Alle esequie, Eracle ubriacatosi, innalza un inno all’edonismo ma, scoperta la vera identità della defunta, nonché il suo slancio d’amore per Admèto, decide di andare nell’Ade e ricondurre Alcesti in vita. Così, il dramma termina con il ricongiungersi dei due sposi, in un lieto fine. alcesti7

Con la regià di Cesare Lievi, Alcesti diviene davvero il dramma della morte e della resurrezione; non a caso la tragedia comincia con un funerale e si chiude con un lieto fine, ambiguo e oggetto di molteplici interpretazioni. E l’ambiguità viene preservata nella resa scenica. Alcesti torna, riportata da Eracle al mondo dei vivi, ma più che una donna vera è un simulacro, un silenzioso fantasma di se stessa. La felicità di Admeto, il marito che l’aveva persa e che la ritrova, viene smorzata così che la chiusa preserva integra tutta la tensione drammatica giocata sul contrasto tra vita e morte, tra perdita e salvezza. A rappresentare scenicamente e icasticamente un tale contrasto è la casa, elemento centrale della scenografia (essenziale nei tratti ma molto funzionale da un punto di vista scenico). Si svuota e si riempie, rendendo così plasticamente il contrasto tra la presenza e l’assenza di Alcesti, tra la vita e la morte e poi tra la morte e la resurrezione. Il tema del dramma si presta facilmente ad una reinterpretazione in chiave cristiana, ma il regista è stato attento a non sprofondare in un baratro in cui sarebbe stato troppo facile e troppo rischioso cadere. La bara del funerale con cui inizia lo spettacolo rimane in scena fino alla fine come un memento mori, ricorda a tutti coloro che si sono rifiutati di morire e ad Admeto per primo che quello è il destino che comunque li attende, ma soprattutto è funzionale a far percepire la morte come una presenza e non come un’assenza. Alcesti diviene centrale nel dramma perché sceglie di morire: questa scelta la qualifica come indispensabile agli occhi del marito, dei figli, dell’intera città. Pertanto, di grande valore empatico nel testo euripideo risulta il momento della morte che, contrariamente a quanto prescrivevano le norme del teatro antico, avviene in scena. 52-ciclo-inda

A Galatea Ranzi (Alcesti) e a Danilo Nigrelli (Admeto) il compito di rendere il momento del distacco patetico ed empatico senza scadere in una retorica banalizzante. Compito arduo che non sono riusciti ad espletare del tutto: ne risultava infatti un quadro più vicino alla rappresentazione di un’opera lirica che di una tragedia greca. L’Alcesti, però, figurando nella tetralogia al posto del dramma satiresco, presenta delle caratteristiche proprie, una delle quali è la presenza di personaggi comici: Ferete, padre di Admeto, magistralmente interpretato da Paolo Graziosi ed Eracle, Stefano Santospago, si fanno portatori di una carica ironica che rende ancor più evidente il contrasto tra la festa e il lutto.

Gli spettacoli di quest’anno, pur avendo raggiunto nel complesso un buon livello (specie se confrontati con alcune delle performance degli ultimi anni) ripropongono con insistenza lo stesso interrogativo: è possibile mettere in scena una tragedia senza snaturarla e allo stesso tempo rendendola fruibile e godibile per lo spettatore di oggi? È necessaria una rilettura, una riscrittura, una poderosa manomissione del testo per far arrivare “a noi” la stessa essenza del dramma che arrivava “a loro”?

Forse, non è necessario pensare che siamo diversi e che abbiamo bisogno di vedere e sentire cose diverse. La tragedia parla a quanto di più umano c’è in noi e l’umanità con il trascorrere dei secoli non cambia, e muta pelle, non essenza.

di Aretina Bellizzi, all rights reserved

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati