ELENCHI E VALIGIE

di Cara Futura Rigby

ELENCHI E VALIGIE

di Cara Futura Rigby

ELENCHI E VALIGIE

di Cara Futura Rigby

Elenchi e valigie

È che alcune cose puoi farle solo in precise finestre temporali.

È che alcune cose, ad esempio, puoi farle solo d’estate.

Almeno credo.

Almeno credo di poterlo fare solo d’estate.

Solo di notte e d’estate, se non dormo, posso aprire, ad esempio, il finestrone del mio soggiorno e guardarvi.

Di giorno siamo tutti caricature del fordismo. Ma solo d’estate e di notte ho scoperto che siete creature animate, che anche voi avete una vita, ho potuto chiedere la vostra compagnia notturna e il permesso a guardarvi quando non riesco a prendere sonno o quando mi sveglio nel pieno della notte e la fase di riaddormentamento risulta difficile, manco la mia testa stesse a un concerto dei Deep Purple.

Voi del quarto piano con le pale lente sul soffitto, voialtri che ancora avete la televisione accesa, tu che scendi le scale di fretta e chissà, chissà dove te ne vai a quest’ora.

Di notte, dice la mia analista, la mia vita prosegue lo stesso. E anche la vostra, a quanto pare.

È che poi alcune cose puoi scoprirle sono in precise finestre temporali.

È che alcuni fatti, ad esempio, puoi scoprirli solo d’estate.

Almeno credo.

Solo d’estate, una volta ad esempio, scoprii quella cosa strana, complicata e contorta insita nel fenomeno della compresenza, della convivenza degli affetti, della concomitanza delle cose.

Quei fatti così magici e di straordinaria natura secondo cui due eventi decidono di coabitare ed esistere insieme, secondo cui due accadimenti si trovano a presentarsi nello stesso momento, si trovano a manifestarsi contemporaneamente alla nostra mente, nonostante un’ipotetica inconciliabilità o una presunta difformità, senza che una cacci l’altra o viceversa. Un ballo armonico di plausibile civile morbidezza.

Come il cielo e il mare.

Che abitano l’orizzonte dei nostri occhi contemporaneamente, senza che uno saccheggi bellezza all’altro, senza che uno derubi il primato di meraviglia all’altro. All’orizzonte, essi esistono lì in fondo, all’infinito della vista, esistono simultaneamente.

Lì lontano da tutti, lontano da noi umani che con l’uso di categorie esorcizziamo la crudeltà a chiudere le esistenze illimitate dentro gabbie di senso.

unnamed

Come nelle cene di saluto con gli amici di sempre.

Che io da sempre sono una frana nei saluti, tipo che quando saluto qualcuno che parte in vacanza, mi viene il magone come se andasse ad arruolarsi in guerra civile in Angola. Una scena patetica nostalgico-dolorosa che veramente Bambi era la gioia de vive.

Tipo quando mi accorgo che nelle nostre cene di sempre, da sempre da molti anni, convivono i due tempi dell’affetto profondo.

Il tempo dell’allora, in cui tutti rimaniamo identici a noi stessi, prevedibili nel calcolo sul futuro netto e ipotizzabile, con i nomignoli immutati di una volta, con gli stessi caratteri dell’allora, con quelle stesse precise distintività che non potevano che destinare S proprio alla politica, B a fare il creativo, R a diventare psicologa, M ad espatriare, F a lavorare nel commercio.

E, insieme al tempo dell’allora, un tempo anche dell’oggi: il tempo delle cose ormai cambiate, delle vite che, nonostante i calcoli di previsione, sono giunte trasformate fino a questa sera.

Il tempo del per sempre, che ci rende uguali a noi, e il tempo dell’adesso, delle vite mutate e in movimento. Il passo di due tempi sbilanciati, ma conviventi e compresenti.

Come negli affetti e con le persone.

Quel fatto, a volte irrequieto quanto vero, della concomitante manifestazione di due territori emotivi.

Perché puoi essere lontano, ma non per questo sparire dalla mia mente.

Perché posso sorridere, ma non per questo avere al contempo la mente annebbiata.

Perché puoi mancarmi, ma non per questo amare in modo diverso qualcun altro.

Perché posso pensarti, ma non per questo pensare anche ad altro.

E scoprimmo, quindi, nelle estati della vita e nelle successioni degli anni, che le cose possono convivere, che nulla muore al comparire del suo opposto, che le cose si conservano e si preservano anche e nonostante il gioco dell’alternanza emotiva, il twister della vita interiore, tra il baccano di tafferugli famelici e la pace di venti calmi nella mente.

E allora arriva l’estate e con essa i saluti e i ricordi, la necessità di scendere a patti con le convivenze dell’animo.

E, dunque, arriva l’estate, arrivano le valigie e con esse gli elenchi di ciò che non possiamo trascurare, di ciò che vogliamo bonificare, di ciò che dobbiamo ricordare e di ciò che preferiamo non rievocare.

E, allora, ci troveremmo a dover scrivere su un foglio la lista delle cose da non dimenticare, l’inventario delle volontà da promettere a noi stessi, l’enumerazione di ciò che non dovremmo abbandonare.

Un elenco tacito e inconfessato che, così, potrebbe suonare:

Dissetatevi della saliva di chi amate;

Non consegnate il vostro cuore a venditori ambulanti di emozioni;

Regalate a uno sconosciuto qualcosa di voi, anche prima del terzo gin tonic o anche dopo l’ultimo sorriso;

Non abbiate timore di mostrare le vostre nudità dell’animo, che tanto vestiti siamo tutti uguali. Ma nudi no, siamo noi e solo noi. E rimaniamo non protetti e infinitamente più umani;

Indossate un cappello di paglia per proteggere i vostri pensieri, metteteli sotto l’ombrellone ristoratore delle risate con gli amici;

Indossate scarpe comode per i vostri passi di vita, allenate i vostri muscoli di curiosità, accarezzate e addestrate i vostri respiri verso il mondo;

Illuminate il faro della conoscenza per scoprire i paesaggi degli umani e rimanete al buio delle stelle per dire quello che il coraggio non sostiene;

Date fiducia al diverso e recapitategli il desiderio di un incontro;

Abbiate cura di chi vi racconta un segreto e ponetelo al sicuro di una cassaforte dalle pareti morbide. Perché, quando un segreto impazzisce, sbatte la testa troppo forte. E no, non se lo merita. E, una volta affidatovi, avete voi il dovere di badare alle sue ferite;

Nutritevi di racconti da altri, sollevate interrogativi a chi conoscete bene e ponete domande a chi incontrate fortuitamente;

Stringetevi su una panchina per far entrare tutti i vostri affetti. Seduti vicini-vicini, stretti-stretti nello spazio della vita. Perché la vicinanza non è calore molesto se chi vi è accanto ha la freschezza dell’animo.

E così, in conclusione, si concludono la nostre permanenze in città.

Anche quando dici “io parto, non mi cercate”, di fatto sul serio non lo pensi: nascondersi è meraviglioso, ma è un disastro non essere trovati.

Accade che quando vai via da qualcosa desideri lasciare un po’ di te o portarti dietro un po’ di ciò che saluti. Un ricordo che sia impalpabile o un oggetto che sia concreto. Di fatto, in entrambi i casi, una scusa per tornare, una nostalgia da ritrovare.

Che poi chissà se in merito a questa personale atavica propensione alla malinconia, è vero quello che dice mia madre. Che è perché, sostiene lei, sono nata su un’isola e chi viene da un’isola ce l’ha insita nel sangue l’afflizione dell’eterna partenza. Che poi l’isola in questione sia l’Isola Tiberina e cioè una sottospecie di zattera scomposta tenuta su dai ratti della suburbe e del Tevere è solo un dettaglio. Ma a questo riferimento pseudoromantico ci credo ormai indegnamente, almeno per dare un senso credibile al magone che mi prende ogni volta che vado via o che saluto qualsiasi forma di vita vegetale che respira.

Che tu pensi di lasciare lì per sempre.

Che pensi di salutare ogni volta come se al ritorno non la ritrovassi più.

E invece la vita prosegue e il tempo è un inganno.

E allora accade che le cose si conservino.

Accade che esse non se ne scappino manco a pagarle.

Accade che le ritrovi un po’ cambiate, ma profondamente uguali.

Profondamente loro, riconoscibili e costanti, come tutti gli affetti antichi e imperituri.

Fatele bene le valigie, scegliete bene cosa portare.

di Cara Futura Rigby, all rights reserved

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati