Donna, classe ’94, ultimo anno di Ingegneria Gestionale.

di Redazione The Freak

Donna, classe ’94, ultimo anno di Ingegneria Gestionale.

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Donna, classe ’94, ultimo anno di Ingegneria Gestionale.

di Redazione The Freak

“Ottima scelta, troverai lavoro facilmente, se..” e quel “se” sai già dove vuole andare a parare. Sul giornale leggi l’articolo “L’80% dei laureati in Ingegneria Gestionale all’Unical trova lavoro a tre mesi dalla laurea”. Il commento della coordinatrice del corso di laurea: “La percentuale non è al 100% per chi cerca di restare, per chi non cerca subito fuori”. E allora studi e guardi già la valigia in un certo modo. Ho scelto di studiare qui anche per questo. Prima o poi dovevo andarmene, perché non formarmi in un contesto buono, che magari non avrebbe potuto introdurmi in realtà aziendali a km0, ma in cui potevo vivermi ancora quella che è “casa?”. Si avvicina il momento della laurea e vedo gli amici partire, aiuto con gli scatoloni e un po’ fremo dalla voglia di realizzarmi anche io, un po’ mi sento così al sicuro ancora nella mia stanza. Poi arriva il momento anche per me. L’offerta arriva da Milano, e quando offrono di più dei 100 € forfettari offerti a chi ha lavorato qualche mese qui, è un prendere o… prendere.

Questa è la mia storia e la storia della maggior parte dei ragazzi che conosco, storie di valige da preparare in fretta e di pacchi che partono “da giù”, storie accomunate dalla medesima costante: la voglia di fare, di imparare, di crescere… di tornare (?).

Qui non c’è niente, non c’è futuro,  non si trova lavoro”. Chi dice “Siete fannulloni, non lavorate, non conoscete il sacrificio” provasse a crescere con questo ronzio nelle orecchie, che ti dice, in continuazione: “Prima o poi te ne dovrai andare”. Cresciamo così, amiamo e odiamo la nostra terra, perché niente funziona e sappiamo di doverla abbandonare, ma la difendiamo a spada tratta perché non riconosciamo altrove la passione, la devozione verso una pasta al forno, le giornate sulla solita spiaggia o verso il profumo del caffè di prima mattina. Abbiamo famiglie chiassose e veniamo invitati a pranzi che finiscono alle otto di sera, cresciamo con radici profonde, ma anche pronti a vederle sradicate. Fa male andarsene perché guardi chi rimane, chi si ritaglia il suo piccolo spazio in questa terra incolta per un futuro fatto di famiglia, case vicine a quelle dei nonni, sabati con le persone che conosci da una vita e magari si ritroverà con vecchie conoscenze all’uscita di scuola dei propri figli. E in certo senso questa vita è quello che vorresti e allo stesso tempo è un’alternativa che ti sta stretta, senti che abbracciare questa possibilità sarebbe come mettere da parte anni di studio con le tutte le ansie e i libri letti che hanno comportato. E allora parti perché fuori ci sono realtà che ti possono far crescere, parti con un volo di sola andata e con la consapevolezza che tutto quello che ora è casa diventerà un posto in cui “fare ritorno”.

“Se fossimo nati per stare in un solo posto avremmo avuto le radici al posto dei piedi” dice qualcuno, ma mi piace pensare che un giorno libertà sarà anche scegliere di andare e ritornare, alle proprie radici.

di Emanuela P., all rights reserved

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