Diario di viaggio. Terra santa? (2)

di Redazione The Freak

Diario di viaggio. Terra santa? (2)

di Redazione The Freak

Diario di viaggio. Terra santa? (2)

di Redazione The Freak

Sono partito perché un giorno del 2009, inuno degli sporadici passaggi all’università, avevo notato casualmente il bando del programma di scambio con Israele. In quel periodo, sempre casualmente, stavo leggendo un libro di Oren sulla guerra dei sei giorni, e avevo iniziato ad approcciare la sterminata letteratura sul conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese. Colsi quindi occasione per approfondire ulteriormente, immergendomi nei vari libri di Benny Morris (tra cui “Righteous victima”, Vittime in italiano, il migliore resoconto storico sull’argomento, ma aggiornato a dieci anni fa, prima della seconda intifada. Morris poi lo incontrai lì all’università) o in poeti come Murid Al Barghouti (Ho visto Ramallah), o in studi più recenti (come Hamas di Paola Caridi, aggiornato al 2008) ecc ecc.. Argomenti come la storia del sionismo, il mandato britannico e le varie guerre susseguitesi fino ai nostri giorni avrei poi avuto occasione di approfondirli e ristudiarli in inglese a Beer Sheva.

Difatti, ho passato e ripassato analisi geopolitiche, teorie storiche e sociologiche e chi più ne ha più ne metta, ma non mi stanco di sottolineare, quando ne parlo con qualcuno, chiunque sia, che ciò che conta è la situazione sul campo, i fatti come si svolgono ogni giorno, in un’asfissiante routine che dura da anni, interrotta (per i palestinesi) solo da qualche massacro più in grande stile rispetto allo stillicidio quotidiano (l’operazione Cast lead del dicembre 2008-gennaio 2009, ben descritta all’epoca da Vittorio Arrigoni) e dall’altra parte annegata nella paranoia quotidiana, a cui un pizzico di sale è aggiunto dagli sporadici spompati razzi che cadono su Sderot (ogni tanto su Beer Sheva, ma non mentre c’ero io, per fortuna) e dall’ancora più sporadico attentato sulla solita Jaffa Road a Gerusalemme (non le volte che ci sono passato io, per fortuna). Avendo visitato due volte i territori palestinesi (la West Bank e non Gaza, che resta inaccessibile, e solo quest’anno è stato riaperto il varco dall’Egitto), senza contare tutto il tempo passato a Gerusalemme Est (di cui ricordo con nostalgia quel magico luogo d’incontro dinanzi la porta di Damasco che è il Palm Hostel e il mitico Museum on the Seam) il pensiero ritorna sempre al fatto che esiste un immenso muro, con tanto di check-point che bloccano i palestinesi e lasciano passare noi occidentali, nonché cecchini che sparano ai palestinesi e agli artisti venuti da tutto il mondo a “marcare” l’infame barriera. Ebbene, tale muro è stato costruito per fermare gli attentatori arabi che dal 2000 al 2005 hanno seminato il panico nei bar, nelle stazioni, nei locali, nelle strade di tutto Israele (ma specialmente a Gerusalemme e Tel Aviv), ma non ferma affatto i terroristi israeliani che invadono e colonizzano quel pezzo di terra rimasto tra il Giordano e Gerusalemme (esclusa) su cui dovrebbe nascere l’agognato stato palestinese. Parlo dei settlers, dei coloni, quelli che in Israele vengono chiamati national religious (ben distinti dagli ebrei ortodossi, che in realtà, per quanto assurdi e integralisti, sono in gran parte pacifici e addirittura anti-sionisti), cioè una buona parte della società  israeliana, composta da estremisti religiosi armati fino ai denti e finanziati fin dagli anni ’70 da tutti i vari governi (soprattutto grazie agli aiuti americani), i quali hanno il solo intento di rubare altra terra palestinese e dapprima arrivano in piccoli gruppi familiari, stabilendosi in prefabbricati, per poi erigere in tempi brevissimi vere e proprie città . Questa colonizzazione spudoratamente fondata su basi razziste e deliranti “ per cui la loro presenza a Gerusalemme Est, Betlemme, Nablus, Hebron, Gerico ecc. sarebbe giustificata dalle pagine della Bibbia, in barba a tutte le leggi internazionali” si concretizza in complessi residenziali circondati da guardie e filo spinato elettrificato, sulla cima delle colline, in modo da avere sotto controllo la popolazione autoctona, per poi privarla dell’acqua e coprirla d’immondizia. Forse quello dei coloni non è l’aspetto più caratterizzante del sistema di apartheid costituito dalla leadership sionista, ma è rivelatore di quali siano da decenni le reali intenzioni di Israele, e specialmente della destra che domina il paese. Si assiste a una conquista progressiva e continua, in spregio di tutti gli accordi faticosamente raggiunti in passato. La politica cosiddetta dei “facts on the ground” che mira a rendere tecnicamente impossibile uno stato palestinese.
Non solo infatti non esiste un corridoio o una striscia di terra che unisca Gaza e la West Bank, ma la stessa Cisgiordania è frammentata (dalle molte strade riservate ai soli israeliani, costruite sempre con i soldi dei contribuenti americani), nonché continuamente invasa e controllata, internamente (tramite zone militari e macshom, posti di blocco che annullano quasi ogni libertà di circolazione, fermando a volte anche deputati e personalità  istituzionali del governo di Abu Mazen) e ai suoi confini (non esiste un passaggio in Libano e Siria, perché dal 1948 vige ancora lo stato di guerra, mentre il confine con la Giordania è gestito da Israele stesso, come anche qualunque accesso per via aerea, visto che, come si sa, si può arrivare solo da Tel aviv). Si potrebbe andare avanti per pagine e pagine, parlando della gestione esclusiva dell’acqua, dei fondi internazionali per lo sviluppo, delle linee telefoniche ecc. ecc. Per me è certamente difficile prescindere dalla discussione politica su questi che sono gli argomenti base dei negoziati e del processo di pace, in stallo da tempo immemore, ma una considerazione personale inevitabilmente prevale, perché mi ritorna continuamente in mente dalla prima volta che ho attraversato la barriera tra Gerusalemme e Betlemme:

«Questo muro esiste dal 2002, e dico ok, ora c’è e qua fuori in Europa nessuno pare accorgersene, neanche durante le commemorazioni di Berlino, dell’89 e bla bla bla, ma PERCHÉ VOI ISRAELIANI NON VE NE STATE DALLA VOSTRA PARTE? Con quale coraggio, con quale credibilità  pensate di salutare, e salutarmi, pronunciando la parola שלום (shalom)? Se davvero pensate “ e me ne sono convinto anch’io, come pure i miei amici che hanno visitato i paesi arabi” che voi e quel popolo non potete vivere a contatto, nonostante tutto, e quindi è meglio che il muro ci sia (smettetela però di fingervi europei, perché qui almeno qualche muro è stato buttato giù, come quelli dei ghetti in cui i vostri nonni erano rinchiusi) allora perché continuate a invadere, sequestrare, depredare, terrorizzare, umiliare, e controllare un popolo intero, fomentando in questa maniera l’estremismo islamico, senza dimostrare alcuna visione, non dico di pace, ma almeno di sopravvivenza nel medio-lungo periodo?»

Questa è una terra maledetta perché la logica della polarizzazione è stata portata agli estremi e non c’è più spazio per la logica in senso proprio, per il ragionamento. Quei tanti israeliani e palestinesi che si sono stufati della guerra e di questa catena di morti senza senso che non sembra avere sosta da più di cento anni “ cioè LA GENTE, non i governanti di certo “non sono capaci, neanche loro, di trovare uno spazio di riflessione onesto. C’è bisogno di misurare questa realtà  con distacco, e tale operazione sembra essere stata lasciata solo a noi osservatori esterni, che abbiamo visto ma che possiamo confrontare quell’atmosfera pesante e quell’inumanità  penetrata ormai in profondo con un’idea della vita diversa, dove si possa sperare e fare progetti; una vita normale che, nonostante le contraddizioni dell’Occidente e le frustrazioni di questa nostra generazione di europei, è un’idea concreta.

(continua)

2 risposte

    1. Casualmente proprio ieri mattina ho parlato della questione in un’esercitazione durante il corso di Giurisdizioni Internazionali. L’argomento era il parere della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja che nel 2004 ha dichiarato illegale il muro

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