DE CAMERUN

di Edoardo Orlandi

DE CAMERUN

di Edoardo Orlandi

DE CAMERUN

di Edoardo Orlandi

Vede Messer Togni che non è del tutto vero quello che si dice in merito alle coste nere dell’Africa Occidentale, e ce ne sarebbero di novelle da raccontare se solo ci fosse il tempo d’una peste eterna.

Per esempio so d’un omo, rispettabilissimo cristiano, che ha avuto per lungo tempo, oltre che barba ed occhi chiari, un lungo rapporto con i negri, i veri negri, quelli ammassati sulle sponde del Niger; e parimenti anche con quelli del Camerun, la terra sottosopra, nella quale al nord l’arida temperatura del deserto restringe i musi ed allarga le vocali islamiche, mentre a sud le selve frigide affumicano il colore, forse offuscano il pensiero, dei Douala, Basa, Banfìa o dei gruppi Fang di sangue Bantu. Ed essendo che grandissima freme aveva costui di costruirsi il futuro di bianco nella terra nera, senza togliere nulla ai popoli nativi, che per altro considerava abilissimi schiavi, e amorevolissimi, e pietosamente sommessi nella loro dura lotta alla malaria o alla dolce dipartita dei polmoni sanguinanti, si diresse nelle profondità del Continente di sopra un naviglio piccolo, ma ben fornito. Avendo oltrepassati i lidi che prendono nomina dal commercio e dai giacimenti di materie prime: Costa d’Avorio, Costa d’Oro tra Ghana e Togo, e poi Costa degli Schiavi; costui, laudevolissimo signore, vide bene dal calarsi oltremodo al di sotto del centro equatoriale ma di ammainare ancora un poco nel golfo camerunense per discuoprire meglio i vestimenti d’altri popoli.

Bisogna ora dire come costui, avendo costruito meravigliosa sede oltre i monti Adamaoua, nell’estremo nord della regione, dove il fiume più vasto dell’area, il Sanaga, sorgea minuscolo, ed avendo sotto di lui gran numero di servi e penosi offici da ordinare, fu costretto ad approssimarsi tosto all’uscio di casa con un viaggio nato di principio dalle coste della città di Douala. Quamtunque la penosa speme egli avea d’arrivare, trascorse del tempo con quel popolame sparso, e più volte desinò alla corte loro chiedendogli, con rispetto e servigio, ch’egli riconoscesse e studiasse  i loro costumi e le loro leggi. Siccome il cammino si dilungava sulla tratta del fiume Sanaga, quand’egli ancora sperava d’arrivare presto, una infinità di viuzzoli e calle si dipanavano dal fiume in su la selva sì come tante le genti diverse e folte del luogo. De Camerun, particolare

I pigmei Bagielli selvaggi miagolavano nelle sere di pioggia e dei Babinga, dei quali famosissime sono le frodi, si fan mostra le tracce selvagge delle lotte tra i capo branchi. Ma poi che passati furono, altre teste, similmente di mitezza vestute, si levarono, come i Duala, i Baeia, i Maka i Basa e grandissimi e ferocissimi saladini dei gruppi minori. Ogni incontro dava segno d’una terra diversa sì da temere seriamente d’esser entrati, ogni qual volta, in una nuova nazione straniera.

Più su brulicavano i ceppi sudanesi che avevano preso il nome di Mbum, Durru, Laka, Mbere, Vute, Kala secondo le case, le lingue, le gesta dei corpi, o di quelle eroiche dei loro grandi antenati. Tutto cangiava nel vorticoso disegno di più di duecento sfumature etniche, tant’è che d’oblio era divenuto lo scopo dell’intero viaggio. Di meravigliosa fattura e squisitissima costumanza erano ogni sorta di pietanza, delle quali ai dolciumi con canna da zucchero e cacao, e alle spezie, e alle salse di gamberi e polpa di pesci si dava piena dimora. Per non parlare delle particolari case dei Bamileke, così alte e snelle, dai lunghissimi tetti a cupola gotica di paglia e melma, che si issavano su fin dove sguardo può arrivare; e delle cerimonie, dei sacrifici e dei templi nei quali ad ogni sorta di lussurie e sollazzi si lasciavano prede i preti locali.

Questi erano dunque i tanti di un sol luogo con un solo nome, ed era similmente lodevole quanto costoro avessero in conto di rimanere, quamtunque divisi e dispersi, in reciproco rispetto. Il pluralismo creava curiosità, benevolenza, sentimento repubblicano, accordo prematrimoniale, che è alla base di ogni pacifica convivenza. E ciò più di tutto destava meraviglia.

Il Camerun viveva e vive di tanti spazi diversi in tempi diversi senza perdere nulla, o solo quello che è di norma perdere. E così tra un dialetto locale al quale si era sovrapposta la calata tedesca, e ad altri una franca, altri quella anglia, il Camerun cresceva e cresce continuamente diverso da se stesso, ma in laudevolissima e serenissima conformità di spirito. Di ciò posso dire che sia vero solo ai margini dell’equatore oltre il quale, per buon senso, non mi spingo.

Questo era dunque il viaggio d’un uomo immaturo ch’ebbe da imparare quanto l’Africa non è tutta nera, o almeno non lo è in tutti i luoghi in egual misura. E ciò è quel che opinavo giusto dirle acciò ch’egli abbia da avvedersene.

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