Davide è “forse in Africa che importa”

di Cara Futura Rigby

Davide è “forse in Africa che importa”

di Cara Futura Rigby

Davide è “forse in Africa che importa”

di Cara Futura Rigby

Quando ero piccola, Davide era più grande. Quel tanto da renderlo bello ai miei occhi “come gli amici di mio fratello” e quel poco affinchè lui potesse dirmi “Quando cresci ti sposo” senza che io, in fondo,ci credessi davvero.

Non c’erano i cellulari e non c’erano i social.

C’era Davide che era al bar dello stabilimento: la riservatezza di un’educazione siberiana e la morbidezza di un’accoglienza mediterranea.

Dicono che fosse nato presso un mare del Sud e che un mare del Centro Italia, poi, lo avesse adottato.

La montatura degli occhiali nera e un sorriso che non si apriva mai del tutto,  gli occhi stretti tra le rughe di giovinezza e la bocca semichiusa in un segreto.

C’era Davide che mi diceva di ascoltare i Nirvana, la Dave Matthews Band e Pino Daniele. Diceva che sarebbe stata la triade della mia formazione musicale. E a me, questi qui, non piacevano poi tanto. O meglio, io amavo lui e pur di trovare un modo per parlargli, me li facevo piacere a forza.

Poi mi piacquero davvero.

Alla fine di ogni anno, ci davamo appuntamento all’inizio dell’anno dopo, perchè “Settembre è un po’ il gennaio dell’estate”, mi diceva Davide.

E io lo aspettavo ogni anno, come il mio cuore lo aspettava ogni giorno, come le mie orecchie si riempivano di quella strana tripletta solo per essere all’altezza del suo bancone di alluminio, anno dopo anno, di primo luglio in primo settembre: all’altezza di quel bancone che misurava i miei anni all’aumentare della mia statura. Li ascoltavo con le cuffiette e la pelle salata, mangiando il Cono Palla sotto l’ombrellone, con i piedi dondolanti sulla sdraio e la speranza che più ne avrei saputo e più mi avrebbe potuta amare. Li ascoltavo anche d’inverno, adempiendo ad un compito sacro, nei mesi che mi avrebbero diviso dalla chiusura della stagione all’apertura della successiva.

“Ho studiato eh!”, mi presentavo così all’inizio di ogni estate, con i capelli bagnati e il fiatone: salivo di fretta le scale del bar del lido, a quella velocità sconsiderata che non ti fa più capire se i battiti accelerati siano per la circolazione sanguigna o per quell’altra cosa lì.

Mi mettevo sulle punte, poggiando il mento al bancone freddo, con il dolore del mio peso sotto le dita dei piedi, il dolore di chi è piccolo e vuole subito diventare grande, di chi è ormai troppo grande da non poter tornare piccolo.

Poi, un’estate, Davide non lo trovai più. E seppi solo che si era trasferito al Nord.

Nessun cognome, nessun indirizzo, nessuno a cui chiedere.

Davide non avrebbe potuto vedere il mio cuore immaturo battere sotto ad un costume bagnato.

Ed io fui triste.

Per me.

Per lui.

“Caro Davide, questa è una foto del nostro lido. Te la mando perchè mi chiedo sempre se lì al Nord puoi ancora ascoltare il rumore che fa il mare. E io te la mando perchè spero ti faccia piacere. P.S. Ho scoperto una nuova cantante che si chiama Janis Joplin e vorrei parlartene, la conosci?”

La lettera è ancora nel cassetto, con la carta ingiallita di un blocco di “Cioè” e la scrittura arcuata di quando in adolescenza provavi a fare la M perfetta. La foto è su pellicola Kodak, datata 29 agosto 1999.

E io, ogni anno, quando scendo al mare, do un bacio a Franco, proprietario, ormai anziano, dello stabilimento “Il Corsaro”.

Franco è seduto su una sedia da regista rossa, di quelle da bagnino con la tela sbiadita dalla salsedine.

“Ciao piccolè. Di Davide nessuna notizia.” Mi dice ogni anno Franco.

Alza le spalle, Franco, mentre guarda l’orizzonte e non si volta verso me.

Alzo gli angoli della mia bocca, io, mentre mi piego verso di lui per ricevere il solito bacio in fronte, che adesso sono io a piegarmi, lui ingobbito nella sua età e io finalmente nella mia altezza “sopra al bancone”.

“Nessuna notizia”, dice Franco guardando il largo.

“Non preoccuparti”, dico io accarezzandogli la spalla. 

E rimaniamo a fissare il mare.

Di quelli come Davide avremmo tutti un po’ bisogno: che ti fanno crescere per mano delicata della musica e che hai amato in quel modo puro e cocente, disordinato e ingenuo che solo un’età cruda e acerba può darti.

Di sè un giorno disse: “Prometti di ricordarmi anche quando sarà inverno.”

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