Dannato Faust

di Valerio Tripoli

Dannato Faust

di Valerio Tripoli

Dannato Faust

di Valerio Tripoli

La damnation de Faust inaugura la stagione del Teatro dell’Opera di Roma

Parigi, 6 Dicembre 1846. Alla Salle Favart il pubblico assiste ad un insolito concerto: La damnation de Faust, che il compositore definì “leggenda drammatica”, un Hector Berlioz già fattosi notare per la Symphonie fantasticque (1830) e per il Benvenuto Cellini, oltre che per stare particolarmente antipatico ad uno che di nome faceva Luigi Cherubini (!). E bastano questi due lavori per ricordare alle orecchie di chi li conosce o li abbia anche solo sentiti una volta cose come lusso orchestrale, cromaticità dei timbri, barocco armonico, grandiosità ed effetto; cose che, da sé, potrebbero apparire retoriche ma che, unite alla strabiliante prodigiosità dell’invenzione musicale, alla cura somma del dettaglio e ad un’ispirazione quasi mistica che conforma ogni pagina delle partiture, rendono Berlioz l’antesignano, per eccellenza – insieme a Schubert – di tutto quello che, decenni dopo, si ritroverà in Wagner, in Mahler, nel Novecento. Non è un caso se Daniele Gatti, direttore musicale della messinscena romana, stia frequentando ormai da anni un repertorio di secondo Ottocento (è dell’anno scorso la direzione del Tristan wagneriano) e quest’anno abbia scelto un’opera più antica, come data storica, ma modernissima, quanto a sonorità e concezione formale.

Damnation de Faust - Teatro dell'Opera di Roma

Faust, onnipresente figura del moderno occidente, Ulisse germanico, medievale, europeo. Lo si chiami come più si preferisce, lo si ritroverà ugualmente nelle opere musicali e letterarie di una ventina di autori famosissimi e in una cinquantina di meno noti. Eppure, Berlioz è tra i primi a riprendere dal capolavoro di Goethe le vicende del dottore Faust, che nella desolata esistenza ritrova, come unica luce, quella del demonio, Mefistofele, che gli dà l’illusione della gioia, dell’amore, del piacere, dell’eternità. Il finale? Beh, dal titolo di Berlioz dovrebbe esser chiaro: ciò che in Goethe ha conclusione con un anelito cosmico verso la salvezza, qui sprofonda nell’Inferno, e Faust firma il fatidico patto col diavolo, perdendosi nell’abisso. Ma il punto, come sempre, non è il Finale, ché, con le Voyage di Baudelaire (il viaggio, che metafora faustiana!) possiamo placidamente dire: “Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe” (“Andar giù nell’abisso: Inferno o Cielo, che importa?)

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Roma, 14 Dicembre 2017. Al Teatro dell’Opera il pubblico tarda ad arrivare: che diamine, non c’è Traviata, non c’è Tosca, che cosa strana vedranno mai, i romani? Coraggiosamente – cosa stranissima – Fuortes, sovrintendente, concorda con un Gatti alla sua seconda prima stagionale (ne seguiranno due verdiane, fiù, così i romani saranno più tranquilli) una ‘leggenda drammatica’, rappresentata in forma di opera e non di concerto ben quarantaquattro anni dopo la sua prima parigina. E, peraltro, è di Berlioz, che era risuonato addirittura nel 2016 all’Opera di Roma, nella potente rappresentazione del Benvenuto Cellini diretta da Roberto Abbado. Ma che stranezza, due Berlioz a Roma in due anni di fila! Forse cambierà qualcosa? Macché, Traviata e Tosca sono già pronte per la primavera prossima…

Com’è questa Damnation de Faust? Adottiamo una linea regressiva, dalle cose migliori alle peggiori. L’orchestra dell’Opera (in una compagine raddoppiata, triplicata rispetto al solito) sotto la direzione di Gatti è già nota per eccellenza: d’altronde, quattro ore di Tristan und Isolde dell’anno scorso sono bastate, allora, a provarlo. Ma quest’anno l’orchestra si supera. Davvero, ci si sente orgogliosi ad abitare in una capitale tanto devastata e stanca, nella quale dormono i musicisti di due complessi orchestrali come questo e come quello dell’Accademia di Santa Cecilia. Un orgoglio che è cosa rarissima provare oggi, in questa città. Senza dettagliare, si dicano due cose: la potenza espressiva della marche hongroise (marcia ungherese) e la dinamica instancabile e sferzante della prodigiosa  course à l’abîme (corsa all’abisso) del finale, sono pagine che, per la notorietà di cui godono, possono rischiare di non piacere, peggio di venir male e di accartocciarsi su sé stesse, e qui il pericolo è facilmente scampato, superato a testa altissima; la soavità dell’accompagnamento musicale delle arie, o il mistico stupore che conforma di sé interi corali a tema religioso facevano letteralmente sprofondare in un torpore di rapimento ed estasi, e questo risultato solo una grande orchestra ed una grande direzione possono suscitarlo. Menzioni speciali: prima viola, Koram Jablonko, e l’ottavino di Lorenzo Marruchi, al quale avremmo indirizzato l’applauso più duraturo.

Il Coro è onnipresente, in quest’opera, seppur velato in sonorità pastose e ombrate, quasi mai prende il sopravvento e, se lo ha, è in occasione dei corali religiosi, velati per eccellenza. Esso, sotto la direzione di Roberto Gabbiani è, a nostro modesto avviso, il migliore in Italia (e quindi, quanto ai Cori, il migliore al mondo).

La regìa di Damiano Michieletto è stata al centro di critiche e dibattiti: noi all’opera andiamo per la musica, e ci appassiona poco la vexata quaestio su cosa sia o meno una regìa. Regole basilari di apprezzamento le traiamo da quanto sappiamo del teatro antico e della storia della regìa moderna: se c’è coerenza drammaturgica e lo spettacolo è bello (bello nel senso puro del termine, idealistico, crociano, forse), per noi la regìa ha successo. In Michieletto una prova del genere è sempre (si veda questo Viaggio a Reims) superata a metà: la coerenza si ritrova alla fine, mentre tutta la prima parte procede come per tentativi di trovare una via. La bellezza si ritrova a tratti, in scene spesso scollegate e belle, sì, ma incoerenti o buttate lì, a caso, quasi fosse un caso, aver prodotto bellezza. Comunque, qui, tutta la prima ora dello spettacolo è un susseguirsi di cose; il finale, con il barocchissimo e ingombro giardino del piacere, nonché la meravigliosa scena dell’inabissarsi di Faust e Mefistofele, con Faust che prima firma il patto con una manata di vernice nera, poi è travolto, con Margherita, nella furia sessuale del diavolo, in una marea nera che tutto avvince, è realizzazione di grande teatro. Michieletto, ci viene da dire: “Fa’ meno opere e falle meglio, come a tratti sai fare”.

La damnation de Faust, Finale

Il cast vocale è nota dolentissima: a parte il brevissimo ruolo di Brander (Goran Juric), l’opera è cantata da tre voci: Faust, tenore, Mefistofele, bass-baritone, e Marherita, mezzosoprano. Ora, in un cromatismo orchestrale siffatto, in un rigogliosissimo Eden musicale, le voci devono essere liricissime, generose di timbro e cristalline, nell’emissione. Lo sappiamo, è chiedere tanto, però siamo ad una prima stagionale, all’Opera, con Coro ed orchestra di prima scelta: è troppo scegliere tre voci all’altezza? L’unico che supera la prova, ma solo al confronto con gli altri, è Alex Esposito, Mefistofele. Voce grande, certo, ma dal colore piatto, timbro che non brilla, su un’orchestra che pare un cristallo.

Margherita, Veronica Simeoni, brava come la compagna di classe brava perché studia tantissimo, ossia: per carità, le note ci sono tutte, ma cheppalle le arie lunghe! Non c’è un guizzo, la voce non risalta, sulla carta è un mezzosoprano ma poi in teatro la voce è piccola. Brava attrice, questo sì, ma non siamo all’Argentina, quindi o canti bene o non va bene.

Faust, Pavel Cernoch: diamine, ma come si possono cantare due ore di fila solo con la gola? Voce ingolata, timbro nasale, piccolo (qualcuno dirà: ma come, ogni tanto invadeva il teatro: certo, quando cantava sul letto, vicino alla barcaccia di sinistra, accanto al microfono!). Faust risulta incredibile nel senso di ‘per niente affatto credibile’ e la dannazione è quello che si merita.

Grande titolo, grandi complessi teatrali. L’Opera di Roma comincia bene la stagione: ma a Roma ha da portare i cantanti.

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