Dal G20 alla Cop26.
Quali prospettive?

Dal G20 alla Cop26. Quali prospettive?

Riflessioni a margine di una settimana che ha visto i Grandi della Terra discutere di ambiente

di Pietro Maria Sabella

Dal G20 alla Cop26.
Quali prospettive?

Dal G20 alla Cop26. Quali prospettive?

Dal G20 alla Cop26. Quali prospettive?

di Pietro Maria Sabella

Dal G20 alla Cop26.
Quali prospettive?

Dal G20 alla Cop26. Quali prospettive?

Riflessioni a margine di una settimana che ha visto i Grandi della Terra discutere di ambiente

di Pietro Maria Sabella

Il G20 di Roma si è da poco concluso con la condivisione di un obiettivo da parte della grandi potenze: limitare il riscaldamento climatico del globo a “soli” 1,5 gradi per la fine di questo secolo, grazie ad una imponente riduzione dell’emissione di C02 ed una conversione dell’industria.

Discorso inaugurale del Presidente del Consiglio Mario Draghi- Fonte: Corriere della Sera

A seguire, nel corso del Cop26 di Glasgow diversi altri traguardi sono stati fissati, seppur con le dovute e sempre necessarie divergenze di visione.

In primo luogo, riforestazione. Il pianeta necessita di un assoluto approvvigionamento di alberi, boschi e foreste, che possano assorbire il carbonio e limitare l’aumento delle temperature e dare un taglio alla devastazione degli ecosistemi. Poco o quasi nulla sembra invece emergere rispetto alla tutela degli oceani.

In qualche modo, se prima dell’avvio delle consultazioni multilaterali il pessimismo contraddistingueva molti dei rappresentanti dei governi partecipanti, specialmente il premier britannico Boris Johnson, alla fine son tutti tornati a casa con un modesto ottimismo.

Ebbene, adesso toccherà programmare e progettare una vera e propria road map che trasformi questi intenti in azioni concrete ad un livello globale. Si tratta dunque di una sfida enorme in cui, in prima battuta, sarà compito degli Stati e dei Governi mantenere le promesse nonché dei rapporti diplomatici ed economici bilaterali e multilaterali coerenti e stabili.

In poche parole, serve che il nostro pianeta viva una stagione di pace e di progresso. Ma anche questo non basta.  La distruzione del pianeta è di fatto causa nostra, soprattutto di tutte le donne e gli uomini che vivono nella parte ricca del mondo, quindi la palla passa a noi.

Per la prima volta al G20 nessun Governo (come accaduto invece con Trump e con l’uscita dall’accordo di Parigi) ha negato l’impatto negativo dell’attività umana sul clima e sull’ambiente e sempre per la prima volta il mutamento climatico è stato analizzato ed approcciato come un fenomeno già in atto, irreversibile e che, come scrive Noam Chomsky, può pregiudicare la vita civile e organizzata nel prossimo futuro se non ci limitiamo ad un 1,5 gradi di aumento della temperatura.

La scienza, quindi, pare essere riuscita ad “avere la meglio”, a imporsi definitivamente come proiettore di un messaggio non più controvertibile: i ghiacci si sciolgono, le specie muoiono, le foreste bruciano, tutto questo per causa umana. Siamo noi l’asteroide del XXI secolo che sta impattando sul pianeta eliminando ogni traccia di vita sostenibile e poliversa. Ciò che dovrà scongiurarsi, invece, se proviamo a tracciare una prospettiva di confronto con quanto sta accadendo con la pandemia, è che siano le donne e gli uomini brulicanti sul pianeta a dividersi fra “pro-C02” e “no-Co2”, mettendo così in pericolo qualunque scelta possa essere fatta “ai piani alti”.

Se le ragioni della scienza non verranno comprese, assimilate e accettate dagli abitanti del pianeta che dispongono del 70% delle risorse economiche in circolazione (EU, USA e Cina), la transizione ecologica non risulterà mai abbastanza efficace, tanto meno compiuta. Si tratterebbe di raggiungere un’ “immunità ambientale di gregge”. E stavolta non possiamo accettare scontri, divisioni o chiacchiere nocive. Stavolta, e se non impareremo a rinunciare ai nostri egoismi (nel cibo, nei trasporti, negli acquisti), non avremo nessuna seconda chance.

Il rischio di contrapposizioni fra individui e di strumentalizzazioni della materia ambientale è molto alto in quelle democrazie occidentali attraversate dal populismo e da spinte illiberali e sovraniste, in cui la dialettica politica si è trasformata in polverizzazione del consenso e radicalizzazione delle prospettive ed interessi (nei Paesi autoritari la rigidità del sistema non sposta consensi e opinione, purtroppo!).

Se infatti, come è possibile vedere, il piano delle lotte e delle contrapposizioni ideologiche si è spostato dal terreno dei diritti economici (lavoro, pensione, etc.) degli anni ’70, a quello dei diritti bio-politici (salute, vaccini, riconoscimento dei gender, bio-testamento, etc.) di oggi, nulla ci vieta di assistere nei prossimi anni ad uno scontro sul terreno del clima e dell’ambiente che passi sotto la “tagliola” del pro e contro, del momento evocativo del voto e della campagna elettorale permanente.

Verrà infatti un momento in cui alcune fabbriche dovranno chiudere, dei lavori dovranno scomparire; dovremo rinunciare all’auto e agli spostamenti per come li conosciamo, all’avocado con il salmone a febbraio in montagna per brunch e all’uso smodato di internet e di energia elettrica. Probabilmente servirà anche un green pass vero e proprio, un sistema che misurerà il nostro consumo di energia e ci consentirà l’accesso a beni e servizi in base alla nostra capacità di essere virtuosi, responsabili.

In quel momento, il rischio sarà quello di trovarci nuovamente divisi fra chi vuole abbattere il C02 e chi invece deciderà di voltarsi dall’altra parte, di non rinunciare. Insomma, fra due visioni del mondo diverse, fra due modi di votare diversi. E quando verrà il momento, sarà ancor più plastico che il modello socio-economico dell’umanità dovrà cambiare definitivamente. Allora due vie si apriranno.

La prima, più difficile, probabilmente farà ancora leva sulla necessità della cooperazione mondiale, sul dialogo, la dialettica e una misurazione costante e “glocale” dei costi e dei benefici. La seconda, più facile, si incentrerà su una politica di chiusura, del “si salvi chi può” o “è colpa della Cina o degli Usa”, sulla chiusura dei confini agli immigrati climatici, sull’arresto del commercio e della promozione dei dazi per l’importazione di beni ed energia.

Insomma, ci troveremo sul precipizio e mi auguro che la scelta non sia dettata da un lancio di moneta o da un morso allo stomaco della rabbia e della paura. La via per evitare che nel prossimo decennio si assista ad una polarizzazione degli approcci (qui è data davvero solo una chance) è che tutti i livelli di amministrazione, di governo, tutte le rappresentanze politiche, sindacali, di categoria, producano davvero dunque una road map multilivello per consentire alla popolazione di affrontare la transizione ecologica con consapevolezza e coscienza.

Chi non si attiverà in questo senso verrà giudicato dalle generazioni future e non solo dalle urne. Occorre un processo democratico di transizione ecologica che, già dal più piccolo Comune alla Città più grande, consista da un lato in un maggiore impegno delle autorità nel garantire in via preventiva il rispetto delle norme che tutelano il bene ambiente (inquinamento idrico, dell’atmosfera, incendi e roghi) e dall’altro in una piena partecipazione della popolazione nella corretta gestione delle risorse, in primo luogo, cibo-rifiuti, trasporto-energia.

Dobbiamo rispondere tutti a questa “chiamata alle armi”, a partecipare al New Green Deal, altrimenti avendo seminato vento, raccoglieremo tempesta (nel vero senso della parola).

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