CRIMEA BALBUZIENTE

di Edoardo Orlandi

CRIMEA BALBUZIENTE

di Edoardo Orlandi

CRIMEA BALBUZIENTE

di Edoardo Orlandi

La vedo salire piano dall’orizzonte silenzioso.

La vedo stagliarsi placida sul foglio bianco; e poi crescere, mentre la vedetta scende dalla scala a maglia di canapa urlando, e la campana richiama e vibra più in là sull’acqua increspata. Vedo alti grattaceli di roccia incastonata, e tanto sale acquitrinoso salire verso le piccole cime degli scogli per conquistarne la vetta.

Si scende ai lati della scialuppa con i polmoni colmi d’aria d’oriente. Un oriente strano, non quello lontano narrato da Polo. Un oriente più vicino, ma meno conosciuto rispetto al tremolante Gipango. L’aria che sale su dalla marea è quella della Crimea taurica, e nella Scizia siamo scivolati col pretesto di dimorarvi. Legno, sabbia, roccia ed ora, dentro i piccoli ripari d’ombra, calpestiamo fogliame sparso, schiumoso, incontaminato.

Si sale su verso le terre crude, di cui nulla è noto se non quel poco che i commercianti genovesi hanno potuto ricavarne, quando le repubbliche marinare potevano ancora essere lette sulle prime pagine dei giornali; o quel tanto che i reduci piemontesi hanno raccontato quando ancora si tentava di fare l’Italia; i russi di farsi gli ottomani. index

Sciti è il nome di questo popolo che vedo aggrapparsi su per i costoni marini, come le capre montanare, e la puzza di rape bollite, di cannibali troppo cotti, di colla e pini entra nelle narici, ma soprattutto nelle orecchie quando li senti vociare. Urlano dai faraglioni per parlare di questo o quest’altro, mentre sbucciano scalpi appena raccolti. Cantano per chiamarsi o parlano se un urlo d’ira li coglie di sorpresa. Sfortunatamente questi barbari soffrono di un’acuta forma di balbuzie, che non gli permette di esprimersi mai adeguatamente. Sia chiaro, tra di loro si capiscono: sono ormai abituati da anni a parlare ed ascoltarsi con gli occhi socchiusi, le rughe frontali increspate e l’orecchio attento a non confondere la voce del vicino con quella del cane nella cuccia. Hanno anni di esperienza in questo, come i pescatori ce l’hanno con la rete bucata. Parlano una lingua bucata, e ad ogni passo bisogna fermarli per non rischiare di cadere nel buco, nell’incongruenza, nell’incomprensione, nel suono ripetuto.

«Hanno una lingua onomatopeica!» concludo con il nostromo, cercando di darne un senso.

«È come un’eco gutturale che, senza i dovuti silenzi, non è mai significato, ma solo un lungo sonno senza sogno; un segno senza senno» puntualizzo nauseato, mentre ci avviciniamo ad un piccolo villaggio di Amazzoni (ce ne sono molti di questi paesi femminei nella zona, dove si alloggia in ostelli di ventura, a poco prezzo, da una notte e via).

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Hanno tentato in tutti i modi di correggere la formulazione, la dizione, la mascella, e ci viene da ridere a pensare quanti farmaci le aziende greche abbiano utilizzato senza successo. È inutile continuare a dire che in questi casi ci vogliono i sassi in bocca: come fece ai suoi tempi Demostene per urlare a tutti quanto era brutale il re di Macedonia, o, come nei nostri, Colin Firth, per ricordare a tutti quanto era bello il re d’Inghilterra. Ci hanno provato a bestemmiare di prima mattina con le finestre aperte perché l’aria dissolvesse la questione, ma non c’è stato nulla da fare. Non si può guarire una malattia che risiede nelle orecchie di chi è sano; e, dopo tutto, noi rimarremo sempre sani, per fortuna.

«E ci crederesti se ti dicessi che questi selvaggi sono figli di Eracle? Ha dimorato nel ventre ucraino della mostruosa Echidna per scoprire se sa di casa sbattersi una donna serpente, non capendo la sua lingua. Ci crederesti che questi figli nomadi, poligami e con i suoni della bocca incastrati sono parenti neanche troppo alla lontana dei greci?» chiedo ad un marinaio sordo alla mia sinistra, mentre falcia foglie di tabacco inconsistenti: perché di tabacco in Crimea non se ne coltiva poi tanto.

«Poveri uomini!» respiro di nuovo l’Oriente. «Oddio, si sentono pur sempre fortunati rispetto a quegl’altri più a sud che, per essere chiamati barbari, oltre che a balbettare, sono costretti anche ad affollare, affondare, affogare ….» dico ad un ricercatore di oro al mio fianco, che cerca di fare la scarpetta sul fondo del fiume con scarsi risultati: perché di oro in Crimea non se ne bilancia il peso. «E allora dov’è che siamo?» mi chiede il nostromo, quando sbuchiamo in una radura di palme e rum.

«Siamo forse giunti in America?» urlano dalle retrovie mentre la paura li assale.

E allora, alla disperata ricerca di una risposta che dà, poi, la certezza di un fiume di Amazzoni più a sud e di popoli balbuzienti più a nord, felici di ricoprirsi i tatuaggi con vesti fatte di scalpi.

«No, tranquilli!» grida il nostromo.

«È solo una Scizia più grande».

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