Governare
con la paura

Con la paura
è più semplice governare

Per sopravvivere la politica si aggrappa alle notizie allarmanti
ma la pandemia invece si combatte con la speranza

di Pietro Maria Sabella

Governare
con la paura

Con la paura
è più semplice governare

Con la paura
è più semplice governare

di Pietro Maria Sabella
covid, con la paura è più semplice governare

Governare
con la paura

Con la paura
è più semplice governare

Per sopravvivere la politica si aggrappa alle notizie allarmanti
ma la pandemia invece si combatte con la speranza

di Pietro Maria Sabella

Avevo in mente di elaborare alcune riflessioni sul Covid in merito al rapporto fra scienza e politica, ora che la campagna di vaccinazione si appresta a iniziare anche in Italia, per mettere fondamentalmente in risalto come l’elemento della fiducia, quale collante che tiene unito le parti sociali in uno stato di diritto stia fondamentalmente crollando, picconato senza tregua dalla paura, oggetto e soggetto posto al centro delle dinamiche della vita sociale e della propaganda politica.

Avrei voluto, e probabilmente lo farò funditus, evidenziare come sia molto più semplice governare o amministrare la cosa pubblica (intesa a tutti i livelli) in un clima di paura e smarrimento, di confusione e di disinformazione, perché ciò rende molto più semplice disporre di forme di limitazione e tracciamento degli spostamenti di massa, anche quando queste non siano le più oculate o efficaci, se non addirittura poco coerenti con i principi costituzionali.

In questo contesto, però, la cittadinanza si affida. Navigando a vista, per non dire nel buio, le consapevolezze di un popolo cedono innanzi a istanze di fragile ma istantanea sicurezza. Tutto quanto non rimanga pertinente a dei modelli linguistico-estetici di protezione dal Covid-19 o con l’identificazione del virus in un nemico da abbattere, passa in secondo piano, cede, appunto, all’irrazionalità.

L’esempio della notizia della c.d. “variante inglese” ne è l’ultimo emblema. Anche se la mutazione di frammenti di RNA del virus era già nota e non dirimente – secondo gli studi – per l’efficacia del vaccino, ogni approfondita riflessione pubblica e politica condivisa con la cittadinanza, circa la legge di bilancio, l’uso del recovery plan o del MES, è passata in secondo piano, facendoci persino accettare l’idea che possa diventar comune chiudere le frontiere, lasciando allo sbando centinaia di concittadini già in aeroporto, in treno o in nave. 

Questa geometria dei rapporti in cui paura e disinformazione spadroneggiano sta sfilacciando la muscolatura della società italiana per come è nata con la Repubblica, sta spaccando gli ammortizzatori posti per bilanciare i pesi e i contrappesi istituzionali, ci sta imbarbarendo, isolando, minacciando. La pandemia, tuttavia, ha agito come liquido di contrasto, facendo emergere crepe e distorsioni di un sistema già malato; i negazionisti rappresentano solo la punta dell’iceberg di un sistema che ha smarrito la fiducia, prima nella politica, ora anche nella scienza.

La fiducia, quel sentimento reale di affinità elettiva fra persone e istituzioni così si spezza, soprattutto nel momento in cui la paura non venga costantemente controbilanciata da forti dosi di speranza, che impongano un modello narrativo positivo, in cui il futuro di una società, intesa nella sua interezza come corpo unito, seppur eterogeneo, sia posto al centro. E l’assenza di speranza genera rabbia. 

La rabbia crea violenza (di tutti tipi) e sollecita nuove istanze di sicurezza. E a questo punto il lettore sarà sufficientemente lucido da capire a cosa possa condurre la fine di questa escalation. Noi avremo gli anticorpi per il Covid-19, la nostra democrazia probabilmente non ne avrà a sufficienza.

Eppure, in questo clima di paura, come esseri umani e poi come società avremmo dovuto avvicinarci molto di più all’idea di confrontarci con la morte ad armi pari ed accettare l’idea che il rapporto costante con la natura faccia prevalere infine questa, indistintamente dalla nostra vanità o dalla capacità di maneggiare algoritmi.

Tuttavia, se ci pensiamo, è la narrazione collettiva della morte a non essere stata davvero l’elemento principale di questa storia. È rimasta una componente da gestire, impiegare, sfruttare come spezia. <<Quanto basta>>, si dice in cucina, in base alle stagioni, all’esigenza di apertura, chiusura, e così via.

In pubblico, – fondamentalmente – la morte è stata solo decifrata in numeri, da spargere alle ore 18:00, tutti i giorni, e in alcuni momenti è stata lasciata sfilare con i mezzi pesanti dei militari sulle nostre tavole colme di pizza fatta in casa.

La morte è rimasta esperienza individuale, estranea a tutti gli altri.

In coma farmacologico, nudi, rovesciati supini, intubati, soli, nel nulla, lontani da amori, figli, famiglia. La vita umana che termina in un puff come quella di un insetto.

È probabilmente questa l’immagine della morte che dovremmo tenere presente, sempre, ogni giorno nei nostri occhi ma che non abbiamo potuto vedere per capire a fondo il peso sociale e umano di questa malattia.

Polmoni che si spezzano e cuori che si piegano, macchine che smettono di vibrare i ritmi del battito in stanze di ospedale che sembrano “lager”, in cui ogni forma di sentimento e umanità deve rimanere esterna ed estranea, in cui solo medici e infermieri possono fare da dolci ed eroici traghettatori.

Quel che la narrazione della tragedia del Covid-19 avrebbe dovuto restituire al pubblico è proprio l’esigenza di un confronto sincero e diretto con l’asperità e l’inevitabilità della morte e non solamente con la sua idea, perché, checché se ne dica, da sempre non è mai stata la paura il vero antidoto ad essa, bensì la speranza.

Questa esperienza dovrebbe insegnarci a saper riconoscere meglio le insidie che il potere (in tutte le sue forme e declinazioni) può disseminare e a non cadere inconsapevolmente in un limbo, esattamente sospesi, né totalmente in vita né totalmente morti, sollecitati dalla paura e pertanto spaventati dalla speranza. 

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