Coordinate di un diritto: intervista al Professor Roberto Virzo

di Ludovica Tripodi

Coordinate di un diritto: intervista al Professor Roberto Virzo

di Ludovica Tripodi

Coordinate di un diritto: intervista al Professor Roberto Virzo

di Ludovica Tripodi

Matteo Salvini, neo Ministro dell’Interno, ha alzato la voce ed ha ottenuto il primo risultato: la nave Aquarius non ha “scaricato” il suo pesante e ingombrante carico composto da 629 migranti nei porti nostrani. Alzare la voce paga, le promesse sono state rispettate e i porti chiusi.

I pentastellati, forse troppo presi dai deludenti risultati delle elezioni amministrative, hanno giustificato o hanno accettato o hanno accettato giustificando comportamenti da sempre aspramente criticati, rassegnati ad essere, adesso, solo ombre in un’alleanza che, forse, non li ha mai visti protagonisti.

Provvidenziale l’intervento della, da poco, socialista Spagna che, entrando a gamba tesa nel braccio di ferro innestatosi tra Italia e Malta, ha autorizzato l’approdo della nave di Medici Senza Frontiere nel porto di Valencia.

In base a cosa il Viminale, in accordo con il Ministero delle Infrastrutture, ha preso questa decisione o si è arrogato il diritto di prenderla?

Il Professor Roberto Virzo, docente di Diritto Internazionale (Università del Sannio e LUISS), ha gentilmente accettato di chiarirci le idee in merito.

 

Professore cosa è prioritario, salvaguardare “la sicurezza nazionale” o salvare vite in mare? Salvare vite in mare è quindi un obbligo o una facoltà?

Salvare vite umane e prestare assistenza e soccorso a chi versa in una situazione di pericolo in mare è una norma di diritto internazionale consuetudinario, codificata anche in importanti trattati, tra cui la cosiddetta “Costituzione degli oceani”, vale a dire la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. L’Italia è vincolata da questa norma consuetudinaria e convenzionale, che è al contempo considerata dalle marinerie di tutto il mondo un principio etico.  Non riterrei dunque che almeno la fase del salvataggio di vite umane in mare possa essere condizionata da esigenze di sicurezza nazionale.

 

È possibile negare l’approdo a navi che hanno effettuato operazioni di salvataggio?

La fase dell’approdo di navi straniere che effettuano operazioni di salvataggio è disciplinata da altre regole. Nel diritto internazionale generale vige il principio di libertà per uno Stato di ammettere o meno sul proprio territorio cittadini stranieri, salvo che non si tratti di persone internazionalmente protette, che non possono essere respinte verso lo Stato da cui scappano o verso Stati terzi in cui rischiano di essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Nel diritto internazionale pattizio, si rinvengono per gli Stati costieri obblighi ulteriori posti in particolare dalla Convenzione SAR e dalla stessa Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.

 

La Convenzione SAR (Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo) di Amburgo del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) indicato dal Paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente. Generalmente il primo Paese che riceve le chiamate di soccorso è proprio l’Italia. Cosa si intende per place of safety?

Le parti contraenti di questa Convenzione hanno l’obbligo positivo di istituire, individualmente o congiuntamente, delle aree marine di ricerca e di salvataggio, facendo in modo che queste aree siano contigue e possibilmente non sovrapposte. Lo Stato che istituisce una zona SAR è responsabile del coordinamento delle attività di ricerca e soccorso che vi sono condotte e deve garantire lo sbarco delle persone salvate in un place of safety. Sebbene si usi formalmente il termine safety, che evoca l’accezione di sicurezza da pericoli legati alle condizioni della navigazione, nel caso di persone internazionalmente protette il place of safety deve essere individuato in un porto che consenta la security dei diritti umani. Pertanto se il soccorso avviene nella SAR libica, dove molte delle persone la cui vita in mare è in pericolo denunciano di essere state sottoposte a gravissimi atti di tortura da parte degli scafisti e dei trafficanti di essere umani, il porto più sicuro va individuato in un’altra area SAR del Mediterraneo.

 

Ci sono poi le regole europee sulla gestione di migranti in mare.

A febbraio è scaduta la missione Triton sostituita dall’operazione Themis: la novità principale è la cancellazione della clausola che obbligava di fatto qualunque imbarcazione a portare i naufraghi soccorsi in Italia: la linea di pattugliamento delle nostre unità navali infatti è stata posta a 24 miglia dalle coste italiane ed è stata arretrata e dunque ridotta l’area operativa italiana. Al di là di questa linea torneranno a valere le leggi internazionali: allora perché le navi delle ONG non sbarcano a Malta pur essendo anch’essa un place of safety?

Qui si intrecciano due problemi. Sarebbe auspicabile una revisione della Convenzione SAR, quantomeno nel Mediterraneo. L’Italia potrebbe farsi promotrice di una conferenza multilaterale per ridisegnare le aree SAR. Ad esempio, quella di Malta è forse eccessivamente ampia e di difficile gestione da parte delle autorità di tale Stato. Inoltre andrebbero definite meglio le competenze delle Organizzazioni non governative, per assicurare che la loro attività venga svolta sempre in stretta cooperazione con gli Stati responsabili delle zone SAR.

Anche con riferimento allo sbarco, la disciplina applicabile è in fase di rinegoziazione. Come è noto, il regolamento Dublino III conferisce allo Stato di approdo il compito delicato della identificazione dei migranti, per assicurarsi che tra questi ultimi non vi siano rifugiati, minori o altre persone vulnerabili nei cui confronti, come si ricordava, si applica il principio di non-refoulement (non respingimento). L’identificazione deve essere individuale e accurata. Solo successivamente si può concordare con gli altri Stati europei il ricollocamento. Orbene nei negoziati in corso si propone che tale fase venga gestita direttamente a livello europeo ovvero che si tenga maggiormente in conto che le persone internazionalmente protette possano voler recarsi in uno Stato europeo diverso di quello approdo, che diverrebbe dunque uno Stato di mero transito.

 

L’Italia, nel caso in cui continuasse ad applicare questo tipo di politiche, rischierebbe di macchiarsi di un vero e proprio crimine contro l’umanità?

L’eventuale crimine andrebbe accertato caso per caso. Ad esempio, esso potrebbe configurarsi qualora una persona sotto giurisdizione italiana venisse sottoposta a trattamenti inumani e degradanti.

 

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