Com’è meglio l’astensione
da Trieste in giù

Com'è meglio l'astensione
da Trieste in giù

Un italiano su due non è andato a votare
Un dato che fa riflettere: meglio lasciare il posto ai commissari?

di Maria Rita Curcio

Com’è meglio l’astensione
da Trieste in giù

Com'è meglio l'astensione
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Com'è meglio l'astensione
da Trieste in giù

di Maria Rita Curcio
Astensione

Com’è meglio l’astensione
da Trieste in giù

Com'è meglio l'astensione
da Trieste in giù

Un italiano su due non è andato a votare
Un dato che fa riflettere: meglio lasciare il posto ai commissari?

di Maria Rita Curcio

Con il martellare incessante dei media che tutto il giorno lasciano scorrere le immagini del delirio di folla che sabato scorso ha invaso la Capitale d’Italia, si accompagna l’altrettanto mediatico messaggio di ipocrita stupore verso le evidentissime disfunzioni funzionali del sistema sicurezza rimasto attonito al dilagare dei manifestanti, pericolosamente “avvicinatisi” ai palazzi istituzionali.

E come una cicca di sigaretta, lanciata ad un segnale preciso,  su un cumulo di foglie secche ammonticchiate in un bosco scatena l’incendio, allo stesso modo è dilagato, battente come un tamburo impazzito, il messaggio di una mobilitazione in difesa della democrazia dagli attacchi del nemico fascista. 

Ennio Flaiano avrebbe ancora una volta ripetuto “la situazione politica in Italia è grave, ma non è seria”, io aggiungerei “disperata” nel senso letterale del termine cioè senza speranza.

La speranza infatti muore in piazza dove attraverso la rabbia cieca si manifesta la frustrazione di un popolo che ritiene di non essere stato ascoltato nelle proprie istanze, nei propri bisogni che non hanno costituito oggetto di interesse e di tutela per i diversi attori sulla scena pubblica ed istituzionale: i partiti, i sindacati, lo stesso governo.

Questo gap in un Paese fin qui, democratico come il nostro, segnala un pericoloso difetto di rappresentatività e poiché la democrazia non è soltanto un fatto politico in senso stretto, ma in senso più ampio un tipo di ordine sociale, le manifestazioni di piazza di sabato scorso, sono la prova evidente che i cittadini lanciano l’unico vero e pericoloso segnale di cui avrebbe dovuto tenersi conto, già da lungo tempo e cioè che l’ordine sociale è in disfacimento.

La pandemia da covid e le restrizioni sopraggiunte, in ultimo quella relativa al green pass hanno dato il colpo di grazia ad una popolazione economicamente distrutta, socialmente affranta , politicamente disillusa anche da quei populismi che avevano accesso una speranza simile ad un fuoco fatuo, facendo deflagrare tutti i malesseri storici derivanti da problemi trascinati per decenni e rimasti irrisolti, primo fra tutti il lavoro.

La bussola politica non segna più punti di riferimento, e fra i cittadini e quella che dovrebbe essere la rappresentanza politica si è creato un fossato la cui ampiezza è misurabile attraverso l’incidenza dell’astensione dal voto che da Nord a Sud ha svuotato le urne proporzionalmente al riempirsi delle piazze.

Il termometro della partecipazione politica alle elezioni comunali ha restituito l’immagine di una cittadinanza indifferente anche a quelle che classicamente sono considerate le elezioni più sentite e cioè le comunali: da Roma a San Cipirello più di un elettore su due si è astenuto dal voto. 

A San Cipirello, Comune in provincia di Palermo, sciolto per mafia e dal 2019, gestito da Commissari, non è stato neppure raggiunto il quorum: soltanto il 39,48% dei cittadini si è recato alle urne ad esprimere la propria preferenza.

Ora se tradizionalmente, soprattutto nelle regioni meridionali, il voto alle elezioni comunali ha sempre avuto un peso decisivo a motivo della personalizzazione della preferenza, la spiegazione di tale “stranezza”  probabilmente è da ricercare nella più o meno consapevole convinzione che è meglio lasciare la gestione nelle mani dei commissari che almeno fanno quello che devono fare.

Il primato dell’economia sulla politica, già dallo scorso decennio, si è gradualmente imposto, diventando ultimamente quasi assoluto, debordando ed incidendo profondamente nell’ambito del pensiero sociale e politico, tanto da ridurne l’esplicazione a meri “atti dovuti” e da soffocare quasi completamente i capisaldi dello stato sociale ed i principi del welfare, salvo a sostituirli sic et simpliciter con la politica dei sussidi.

E ancor meno spazio c’è per una classe dirigente eventualmente rinnovata e non necessariamente espressa o incardinata in partiti tradizionali come dimostra l’esito, ancorchè non sempre vincente, delle preferenze manifestate a favore di liste civiche piuttosto che delle liste di partito che, ricorrentemente esprimono candidature percepite come inadeguate ai territori, o troppo funzionali alle stesse logiche di partito o a progetti scollegati dai bisogni concreti delle comunità sui territori.

La speranza muore in piazza dove dilaga la consapevolezza che “il giocattolo” si è rotto o che comunque non funziona più tanto bene e quindi non è più divertente.

Ma in ogni democrazia il popolo fa il popolo e se non si esprime attraverso le urne si esprime attraverso le piazze ed in questi frangenti il popolo, mentre rovinosamente tramontano i partiti tradizionali, sta passando un messaggio preciso: più ascolto,  rappresentatività coerente ai bisogni concreti, più spazio alla cittadinanza piuttosto che alle lobby.

Gli attori pubblici ed istituzionali svolgano la loro parte, ognuno tenendo a mente la mission o l’eventuale giuramento per cui ha assunto il ruolo a presidio di questa nostra fragile e vulnerabile democrazia, senza l’ansia di assieparsi ed appiattirsi attorno “all’uomo forte” di turno, da qualunque parte dell’emiciclo parlamentare si presenti, su qualsiasi scranno sia seduto, in qualsiasi metropoli o paesino di provincia si appalesi.

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