CITIES FOR LIFE – per un Mondo senza pena di morte

di Elena

CITIES FOR LIFE – per un Mondo senza pena di morte

di Elena

CITIES FOR LIFE – per un Mondo senza pena di morte

di Elena

Nella sera di giovedì 29 novembre scorso, contro un cielo nero di tempesta, si stagliava il Colosseo, rischiarato da un faro e dalla scritta proiettata “No justice without life”. Ai suoi piedi, centinaia di persone si sono riunite per celebrare i successi di un grande movimento che si batte per la vita, il bene più prezioso di ogni uomo. Tutti gli anni dal 2002, infatti, la World Coalition against death penalty (composta di oltre 130 associazioni, istituzioni, soggetti individuali) illumina i monumenti di 1527 città nel mondo per dare testimonianza e visibilità ai traguardi raggiunti nell’ultimo decennio, dimostratosi peraltro il più prolifico della storia in questo ambito. I Paesi che hanno compiuto il più importante passo di civilizzazione sono attualmente 140, contro gli altri 58 i cui ordinamenti giuridici ancora prevedono la pena di morte.

Noi Italiani abbiamo, tra le tante, l’impagabile fortuna di vivere nel Paese in cui il seme dell’abolizionismo germogliò già il 30 novembre del 1786, ad opera del Granduca di Toscana che cancellò la pena capitale, sposando così il pensiero di Cesare Beccaria. Le sue argomentazioni giuridiche e filosofiche (principalmente: mancata funzione deterrente e rieducativa della pena, patto sociale a fondamento dello Stato che non può includere la legittimazione ad altri di disporre della propria vita) furono portate all’attenzione dei potenti da Voltaire, probabilmente facendo sì che la ragione illuminista le accompagnasse nei secoli, fino a Norberto Bobbio. Il filosofo giunse alla conclusione che, per contrastare ogni possibile obiezione, l’abolizionista dovesse ricorrere al postulato morale del “non uccidere”, assoluto e valido per chiunque. La collettività, in risposta, non potrà nemmeno giustificare una condanna a morte, omicidio legalizzato, con la necessità di reagire ad un’offesa, poiché la legittima difesa si configura in stato di impotenza, a differenza del gesto estremo che viene invece perpetrato dopo un lungo procedimento. Senza contare il margine di errore insito in ogni decisione umana, che qui avrà sempre un peso insopportabile, per quanto lo si riduca al minimo.

Questo è lo scheletro di una posizione che ha, in realtà, una forte componente istintuale, nel senso che un mondo senza pena di morte è comunque immediatamente percepito come un mondo migliore, poiché più pacifico: “occhio per occhio, rende il mondo cieco”, disse Gandhi. Contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, non esiste sete di vendetta che possa essere placata da un altro omicidio, anzi, la morte può solo aggiungere dolore al dolore. E’ quanto ho imparato dalle testimonianze ascoltate in questi giorni, storie di amore per ogni vita, tanto per quella strappata da un omicidio, quanto per quella affidata alle mani della Giustizia. Ho pianto di rabbia e tristezza ascoltando i racconti di Bud Welch e di Marat Rakhmanov; per questo li voglio condividere, insieme alla sensazione di forza e speranza che hanno lenito quelle mie lacrime, giovedì sera, quando ero ai piedi del Colosseo illuminato.

Bud Welch

“Julie Marie era per metà Italiana e per metà Irlandese; aveva frequentato una scuola superiore cattolica ed aveva fatto uno scambio di un anno in Europa, allo scopo di imparare lo spagnolo ed il portoghese. (…) Studiò lingue all’università grazie ad una borsa di studio e si laureò nel 1994 a Milwaukee in spagnolo, francese e italiano. Quando tornò ad Oklahoma trovò subito un lavoro come linguista per i servizi sociali. Un mattino del 1995 Julie aveva un appuntamento con un messicano che non parlava inglese; erano le 9 di un mercoledì. Julie incontrò l’uomo ed il suo accompagnatore bilingue, e mentre percorrevano il corridoio verso l’ufficio furono sorpresi dall’esplosione di una bomba…due secondi in più sarebbero bastati a salvarli. Julie Marie aveva 23 anni. I tre corpi furono trovati l’uno vicino all’altro soltanto il sabato seguente.

Dopo che i due attentatori, Terri Nichols e Timothy Mc Veigh furono arrestati, ero così pieno di rabbia e vendetta che volevo solo che fossero uccisi, immediatamente, senza processo. Il dolore era così profondo, da far nascere questo pensiero in una persona che aveva sempre pensato che la pena di morte fosse sbagliata, per l’individuo e per la società che la pratica. Mi ci volle un anno intero per arrivare al punto in cui non volevo più che fossero giustiziati, nessuno dei due. Ho gestito per 40 anni una pompa di benzina; dalla morte di Julie, ogni giorno, dopo la chiusura, tutto quello che facevo era tornare a casa e bere alcol. Cercavo di curarmi come molte persone fanno, bevendo. Ma mi resi conto che non mi faceva affatto sentire meglio. Così dopo dieci mesi cominciai a girare gli USA per intervenire agli eventi contro la pena di morte, avendo anche il vantaggio, rispetto ad altri testimoni, di non potermi sentire dire “Cosa faresti, se capitasse a te?”, perchè a me effettivamente era successoSemplicemente compresi che uccidere qualcun altro non avrebbe aiutato me.

Nei tre anni che seguirono andai a trovare più volte il padre di Timothy e la sorellina, e capii che Bill McVeigh ed io eravamo entrambi vittime del medesimo delitto, poiché da quel giorno suo figlio era nel braccio della morte. L’esecuzione di Timothy non mi avrebbe restituito Julie né avrebbe messo fine al dolore dei familiari di ognuna delle vittime di Oklahoma City. L’odio e la vendetta sono i motivi per cui 168 persone sono morte quel giorno del 1995.

Io mi oppongo alla pena di morte nel modo più assoluto, in tutti i casi, perché in tutti i casi è un atto di odio e di vendetta. Dovremmo tutti chiederci: a quanti assassinii e a quante vendette dovremo ancora assistere lungo la nostra vita? Ho paura per il mio Paese. C’è bisogno di un cambiamento sociale nella concezione della pena di morte, proprio come avvenne nel 1800 rispetto alla schiavitù.

Siamo partiti da qui, abbiamo poi ottenuto la garanzia del diritto di voto alle donne nelle battaglie per i diritti civili. Il prossimo passo in questa direzione dovrà essere l’abolizione della pena capitale. Sono sempre stato convinto che essere contro la pena di morte rendesse onore alla memoria di Julie, la quale una volta, da piccola, mi aveva rivelato tutta la sua amarezza di fronte ai detenuti del braccio della morte uccisi da uno Stato che “insegnava ai bambini ad odiare”. E non sono il solo, tra i parenti delle vittime di quel terribile attentato, a pensarla così.”

(Il suo impegno contro la morte di stato è instancabile: ha parlato più volte al Congresso degli Stati Uniti, ha girato per una cinquantina di Paesi nelle Americhe, ma anche in Africa e in Europa, ha incontrato capi di stato, ministri, politici, testimoniando la sua battaglia per una civiltà della pietà e della compassione, per un mondo più umano; per questo ha ricevuto numerosi riconoscimenti.)

Marat Rakhmanov

“Mi chiamo Marat Rakhmanov, sono di nazionalità russa. Sono stato condannato alla pena di morte in Uzbekistan nell’aprile del 2000 e detenuto a Samarcanda. L’unica mia colpa fu il viaggio che feci nell’agosto del 1999 da Mosca, dove vivevo, in questa città uzbeka dove risiedeva mia sorella Majra. Ero andato a trovarla dopo che ebbe dato alla luce la mia nipotina Malika. (…) In quei giorni, quando stavo da mia sorella, venne a farle visita una sua amica, O.Mavlanova, con il suo bambino. La donna era però sotto effetto dell’alcol, tanto che Majra mi chiese di riaccompagnarla a casa. Così feci, poi tornai da mia sorella. La mattina del 17 agosto la polizia bussò a casa nostra. Gli agenti ci dissero che la signora Mavlanova e suo figlio erano stati uccisi e che i loro sospetti ricadevano su di me. Fui dunque dichiarato in arresto con l’accusa di duplice omicidio.

Fin dai primi istanti dopo il mio arresto, i poliziotti cominciarono a percuotermi, per costringermi a firmare una falsa confessione. Mi sottoposero a tortura. (…) Non firmai alcun protocollo e non volli ammettere una condanna per un omicidio che non avevo commesso. Allora mi dissero con insolenza: “Chiameremo a rispondere tua sorella Majra di complicità con te nell’omicidio. Si trova già da una settimana in carcere con sua figlia piccola. A loro faranno lo stesso che hanno fatto a te se non peggio, perché è una donna”. A quel punto, immaginando la sorte che sarebbe loro toccata, e in cambio della loro liberazione e integrità fisica, firmai la mia condanna a morte.

Nel corso del processo, rifiutai le accuse e dichiarai la mia innocenza. Dissi che avevo firmato la mia condanna solo per salvare mia sorella e la mia nipotina. Mostrai i segni delle torture sul mio corpo. Ma il giudice rispose soltanto: “Bisogna avere pazienza”. Erano presenti anche dei delegati dell’ambasciata russa, ma tutte le loro petizioni furono respinte. Nell’aprile del 2000 fui ufficialmente condannato alla pena di morte dal tribunale regionale di Samarcanda. Mi misero le manette e senza attendere la fine dell’udienza di altri imputati, mi condussero in prigione in isolamento. (…) Lì i detenuti dormono sottoterra. Mi fecero dunque scendere in cella e lì presero a picchiarmi, senza ragione, con calci e colpi con mazze di gomma. Perché? Come poi mi spiegarono, picchiavano tutti, anche gli anziani e i malati. Lo scopo era quello di annientare la resistenza psichica dei condannati a morte (…) I condannati a morte avevano solo un diritto: morire uccisi dalle pallottole del boia. E ogni giorno si aspettava con terrore che proprio in quel momento, oppure il giorno dopo, si fosse prelevati e condotti nella prigione di Tashkent, dove avvenivano le fucilazioni. E’ una orribile tortura aspettare ogni giorno la morte. Perché ogni giorno, ogni ora avvicinano la fine e ad appena 28 anni, quanti ne avevo allora, sentire che la vita si sarebbe presto già interrotta…

Mia sorella Majra una volta al mese mi veniva a trovare. Si trattava di un incontro breve e nei suoi occhi intravedevo quanto soffrisse per me, il suo terrore, perché né io né i miei cari sapevamo se avremmo potuto vederci di nuovo. Secondo la vecchia legge dell’Uzbekistan, il condannato a morte era inferiore al diritto (…) I condannati a morte non avevano diritto a conoscere la data dell’esecuzione, né all’ultimo incontro con i propri cari.

Io tuttora non posso ricordare senza terrore e angoscia quell’anno in cui mi condussero nel braccio della morte. La mattina del 20 aprile 2001 mi comunicarono che la mia condanna era stata cancellata e ridotta a 15 anni di detenzione. Ma poi, in quello stesso giorno, io e altri condannati a morte venimmo prelevati e condotti al carcere di Tashkent, e quando arrivammo ci chiusero in cella. Mi avevano cancellato la pena di morte, e allora, perché mi trovavo nella prigione di Tashkent, nel luogo delle fucilazioni? Si riaffacciò il terrore, lo stesso del braccio della morte. E solo il 12 maggio mi trasferirono a Namangan per lo sconto della pena. (…) Il 1° gennaio 2008 la pena di morte venne abolita per legge in Uzbekistan. Il 15 dello stesso mese mi rimisero in libertà, con espatrio forzato in Russia e senza un’ulteriore condanna penale. Il 22 gennaio partii dall’Uzbekistan, dal carcere alla libertà, a casa!

Per la salvezza della mia vita tanti hanno lottato per 9 anni. Tamara Chikunova, a capo dell’organizzazione Madri Contro la Pena di Morte e la Tortura, la Comunità di Sant’Egidio, l’ambasciatore della Federazione Russa Rjurikov, Amnesty International, e molti altri. Che ogni essere umano abbia il diritto alla vita su questa terra a prescindere dal colore della sua pelle, dalla sua nazionalità e dalla sua religione! La pena di morte è il rifiuto del diritto dell’uomo alla vita, è un omicidio premeditato per legge! La vita mi ha insegnato che il male può bussare alla porta di ognuno quando il diritto è contagiato dalla corruzione, da tribunali ingiusti, dalla pena capitale. (…)

Chi emette la sentenza, chi la condanna. E il boia procede all’esecuzione. Tutti poi dormono sonni tranquilli. Cosa li distingue dagli assassini comuni? Perché gli uomini si credono di essere come Dio Onnipotente e si arrogano il diritto di decidere chi debba vivere e chi debba morire?

C’è bisogno di un dono particolare per esprimere la profondità di tale tragedia, le parole non bastano. Ma sono felice che mi sia stato concesso il diritto ad una nuova vita! Ora vivo in Russia, a Tobol’sk, in Siberia. Mi sono sposato e ho due bambini: un maschio, che si chiama Roma, e la piccola Ruslana. Ho un lavoro e studio al quinto anno di università. Presto prenderò la laurea”.

(Qualche giorno prima dell’intervento sono stati individuati ed arrestati gli autori del duplice omicidio di cui Marat fu accusato).

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