Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti i post di odio erano già stati pubblicati.

di Redazione The Freak

Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti i post di odio erano già stati pubblicati.

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Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti i post di odio erano già stati pubblicati.

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Qualche giorno fa, dentro il vento caldo di un’afosa e lenta estate siciliana, mentre scorrevo fra le notizie sulla mia bacheca Instagram e Facebook, figlia di una generazione la quale mi ha conformato ad essere sempre online, sono stata sorpresa da un post shock. Il post mostrava l’immagine di un ragazzo biondo bendato e ammanettato all’interno di una caserma. Stranamente, la prima impressione che ho avuto è stata: “ma è un fotomontaggio, un’altra fake news?!”. Il primo pensiero che ho avuto, da studentessa di giurisprudenza, è stato “è possibile che nel 2019, dopo la recente introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura, dopo i vari scandali e da ultimo il gran rumore del caso Cucchi, possa veramente saltare fuori una foto che ritrae un ragazzo in visibile stato di limitazione della libertà personale dentro una caserma?!”.

Non credevo a quella foto fino a quando non ho letto la didascalia sul post pubblicato dal giornalista Enrico Mentana che, condannando la vicenda, scriveva che ciò “rappresenta una vergogna per lo stato di diritto e ovviamente un boomerang processuale”. Ho quindi realizzato a malincuore che era una foto originale! La foto era stata scattata poche ore prima nella caserma dei carabinieri di via Selci a Roma. Istintivamente ho subito cercato maggiori informazioni sulla provenienza della foto e ho sgranato gli occhi leggendo le varie dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti politici italiani. Avendo seguito distrattamente la notizia dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Rega Cerciello ero stata trascinata dal comune sentimento di giustizia che ha condannato i due americani, i quali la notte fra il 25 e il 26 luglio 2019 hanno ucciso il carabiniere in piazza Mastai a Roma. Ero disgustata dall’idea che due ragazzi, quasi miei coetanei, di buona famiglia, provenienti dalla nazione del welfare per eccellenza e in vacanza nella città più bella al mondo, avevano ucciso un uomo, un marito, un figlio, un amico, un uomo dello Stato. E nella mia testa tutto risultava ancora più assurdo al solo pensiero che l’avessero fatto per motivi legati alla droga.

Le foto e le riprese televisive mi hanno fatto ricordare quei luoghi dove si è consumato il delitto, posti  che in vari weekend mi è capitato di frequentare da quando vivo a Roma come studentessa: il quartiere Trastevere e la frizzante movida che vi si scatena in tarda serata, Prati che ho sempre adorato per l’eleganza e che ho sempre collegato alla forza della legge per la presenza del magnifico palazzo della Suprema Corte di Cassazione. Ed è da lì, sbalordita per le coincidenze della situazione (un omicidio nei pressi della “casa della giustizia” e una violazione dei diritti fondamentali in un momento in cui il dibattito politico è così acceso sulla questione), che ho iniziato un po’ a ragionare sulla vicenda. Ho dovuto ammettere che quella foto, divulgata dapprima tramite gruppi Whatsapp e poi spopolando fra i social media, in tv e sui giornali, rappresentava una verità crudele di un sistema bipolare.

Dalle mie ricerche ho appreso che l’episodio della foto è stato anche confermato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri che ha “formalmente preso le distanze dallo scatto e dalla divulgazione di foto di persone ristrette per l’omicidio del vicebrigadiere Rega” e ha sostenuto che si stanno svolgendo accertamenti diretti ad individuare i responsabili del fatto. In effetti la procura ha aperto un’inchiesta e ha individuato il nome del militare che ha bendato Gabriel Christian Natale Hjorth, uno dei due ragazzi arrestati per l’omicidio. Con mia grande sorpresa ho letto che il ragazzo avrebbe anche scelto successivamente un nuovo difensore e (coincidenze?) si tratterebbe dell’Avv. Francesco Petrelli, il quale è tuttora il legale del superteste al processo sulla morte di Stefano Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco, che ha accusato altri due colleghi di aver picchiato Cucchi.

C’è qualcosa che non mi torna. Ho passato mesi sul manuale di diritto processuale penale, facendo miei principi quali il giusto processo, il principio di legalità, il diritto di difesa, il principio di libertà come valore irrinunciabile in ogni Stato di diritto che si rispetti e adesso questa foto. Ero stupefatta. Ci vantiamo di essere uno Stato di Diritto con le maiuscole, nel quale vengono assicurati i diritti e le libertà dell’uomo e nel quale vincoliamo gli stessi poteri dello Stato alle leggi vigenti. Predichiamo la dignità umana, l’uguaglianza davanti alla legge, introduciamo il reato di tortura per uniformarci al diritto internazionale e poi… ci perdiamo in un bicchiere d’acqua! Pubblichiamo sui social una foto che spazza via tutti i progressi che abbiamo sudato fino ad adesso, una foto che mostra un trattamento decisamente improprio, e tutto ciò sembra quasi “approvato” da politici e masse di leoni da tastiera che urlano “sia giusto! Perché quel ragazzo è un assassino e si meriterebbe molto peggio!”.

A me pare di trovare così tante ingiustizie in una foto sola che non so neanche da dove iniziare ad analizzare la questione. Vista l’inevitabile vicinanza con il diritto americano, mi viene in mente il cosiddetto “habeas corpus” che nel diritto anglosassone è il principio che tutela l’inviolabilità personale, e il conseguente diritto dell’arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da una decisione di un magistrato. Tale principio fondamentale e di origini antichissime, posto a tutela della libertà morale della persona, è stato inserito tra le disposizioni relative alle prove al fine di mettere un limite all’ammissibilità di mezzi o procedure che potrebbero inficiare la libertà personale (vedi articolo 191 del codice di procedura penale italiano per cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. E, nella specie, “le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili”). Ed ecco che, se gli inquirenti accerteranno che la confessione resa da Hjorth sia stata acquisita illegittimamente a causa della benda sugli occhi, le prove acquisite in quel frangente (fra cui un’utilissima confessione del ragazzo) non potrebbero essere utilizzate e ciò si rivelerebbe in realtà un regalo alla difesa del ragazzo. Praticamente, così facendo, i carabinieri rischiano che l’interrogatorio venga dichiarato nullo e le indagini fino a quel momento inutili.

Nel quadro italiano, un primo riferimento è ai fondamentali principi costituzionali che plasmano il nostro intero sistema giuridico. L’articolo 13 della Costituzione enuncia infatti che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” e nel nostro caso, bendare un indagato non è decisamente un modo previsto dalla legge, anzi si potrebbe forse configurare come una violenza che limita Hjorth della sua libertà personale. E, d’altronde, “viene punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

Andando avanti non posso non menzionare l’articolo 25 della Costituzione, e temere che questo atteggiamento di “legittimazione” della foto da parte di politici e cittadini che hanno scatenato un acceso dibattito sulle piattaforme social, possa attentare al principio di legalità. Tremo solo al pensiero. La legge deve essere certa, stabile, univoca; non è che solo perché stavolta la vittima è un carabiniere e l’assassino uno straniero allora possiamo torturare chi vogliamo e girare la frittata a nostro piacimento. Dobbiamo forse ricordare che i diritti umani sono per loro natura universali? Il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte cercando di calmare gli accesi animi protagonisti di una guerra sui social, scrive che “l’Italia è uno Stato di diritto. È la culla della civiltà giuridica dai tempi dell’antico diritto romano. Abbiamo princìpi e valori consolidati, evitiamo di cavalcare l’onda delle reazioni emotive […]. Piuttosto dobbiamo ora vigilare affinché tutti coloro che hanno compiti di responsabilità facciano in modo che le norme siano rigorosamente applicate”.

A proposito di diritti umani, nel 2017 è stato introdotto nel nostro codice penale il reato di tortura. Finalmente con l’introduzione di tale norma il legislatore si è voluto adeguare al monito di origine comunitaria e internazionale, il quale ha imposto allo Stato italiano di disciplinare le condotte di tortura. L’articolo 613bis del codice penale punisce “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa” e ciò è aggravato “se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”. Una benda sugli occhi non ha niente a che vedere con acute sofferenze fisiche… ma se ci pensate bene la linea fra i due comportamenti è davvero sottile. Non c’è comunque un intento di spaventare il ragazzo americano e quasi fargli pagare il conto per la morte del loro collega carabiniere?

Spostandoci dalla Costituzione al codice di procedura penale, la principale disposizione che subito mi viene in mente è l’articolo 64 sull’interrogatorio. Dobbiamo ricordare infatti che Hjorth, come persona sottoposta alle indagini, anche se arrestato e presumibilmente non così tanto collaborativo, sarebbe dovuto intervenire libero all’interrogatorio e non sarebbero potuti essere utilizzati contro di lui metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. L’inosservanza di tale regola rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. Siamo di nuovo al punto di partenza, ecco il boomerang che potrebbe essere favorevole per la difesa degli americani e una sorta di autogol per la polizia.

Il reato che potrebbe riguardare il carabiniere che ha bendato l’americano Hjorth mentre si trovava in caserma è l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti disciplinato dall’articolo 608 del codice penale. Questo reato punisce il pubblico ufficiale che “sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge” un arrestato o un detenuto. Ovviamente bendare un indagato non è una misura consentita, e ciò farebbe ipotizzare il reato in questione. In ogni caso, è opportuno attendere eventuali pronunciamenti della magistratura sul caso. Altro reato ipotizzabile, secondo il Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma Salvi, sarebbe poi la violenza privata. Come citato sopra, inoltre, ci sarebbe il rischio di un ipotizzabile reato di tortura, anche se comunque sembrerebbe molto più difficile da dimostrare. Da ultimo, la diffusione della foto del ragazzo bendato rischia di configurare un ulteriore illecito disciplinare in base all’articolo 114 comma 6bis del codice di procedura penale. L’articolo stabilisce infatti che non si può pubblicare, salvo che con il consenso della persona interessata, “l’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”. Nella foto si vedono chiaramente le manette dietro la camicia a righe di Hjorth, e si capisce la coercizione in generale per l’essere bendato e con le mani legate dietro la schiena. A mio modesto parere, penso sia giusto che sia stata iniziata un’indagine interna per accertare la responsabilità disciplinare e penale dei militari. Una benda sugli occhi non è soltanto una benda, è un gesto grave e inaccettabile per il nostro Stato di diritto. La cosa che più mi preoccupa è tutto questo odio e queste prese di posizioni e di accanimento che ha suscitato la foto fra i (più o meno acculturati) italiani. Facebook, Twitter e tutti gli altri social sono stati inondati da post che grondavano di odio verso i due ragazzi americani. Hjorth e Elder sono indagati come degli assassini, è vero. Pagheranno per il loro delitto, senz’altro. Ma che senso ha accanirsi in questo modo? È la generale percezione pubblica che va verso una direzione di odio e discriminazione, non è un problema solo di alcuni che alzano la voce e scrivono a lettere cubitali commenti (spesso anche sgrammaticati) cattivi. Mentre bevevo il caffè al solito bar sotto casa stamattina l’ho sentito con le mie orecchie da vecchi conoscenti “che ‘sti americani vengono solo a fare danni qui in Italia!”. E oggi sono gli americani, ieri i maghrebini, domani i cinesi e così via. Come cittadina del mondo, mi sono sentita insultata e discriminata in prima persona. Perché se domani ci sarò io, o tu, o tuo figlio dall’altra parte del mondo a chiamare il consolato per una qualsiasi questione, non vorremmo che i nostri diritti da essere umano vengano tutelati sempre e ovunque?

di Cristina Savoca, all rights reserved

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