Cesare deve morire, il capolavoro dei Fratelli Taviani

di Vittoria Favaron

Cesare deve morire, il capolavoro dei Fratelli Taviani

di Vittoria Favaron

Cesare deve morire, il capolavoro dei Fratelli Taviani

di Vittoria Favaron

“E adesso cadi, Cesare.”

 

Shakespeare e il suo Giulio Cesare, una tragedia che ruota intorno alla figura di Bruto, del traditore, del cospiratore, del figlioccio infedele che colpisce alle spalle e atterra la persona che lo ha amato e gli ha dato il pane e dei natali nuovi da rivendere.

Bruto, come se quella tradizione di crudeltà  e stupore si fosse tramandata fino a giungere negli intenti di chi usa il pugnale e mette fine a una vita, come se quel gesto cosi profondamente letale e irreversibile venisse riproposto e consumato al di fuori di ogni tempistica ed epoca.

Giorni odierni e proviamo a varcare la porta di un luogo di pena e redenzione.

Il Carcere di Rebibbia, Roma.

Un luogo in cui sono ammassati i peccati capitali e uomini con il loro numero matricola scritto con la vergogna, l’espiazione e la prigionia.

Uomini, carcerati, persone che hanno lasciato fuori da quelle sbarre ogni possibilità di essere liberi, per loro scelta, per colpe e doli che costano un’esistenza in gabbia.

Poi entra il cinema e “sembra” che solo l’arte sia in grado di concedere una precaria e riparatoria speranza a coloro che la speranza l’hanno vista l’ultima volta scritta in qualche cartellone della pubblicità sulle strade che non possono più varcare.

I fratelli Paolo e Vittorio Taviani portano sullo schermo la tragedia Shakespeariana nel loro film “Cesare deve morire” rappresentando un teatro nel teatro, con personaggi-persone che tentano di recitare se stessi.

I due registi, vincono con il loro ennesimo capolavoro, il prestigioso Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino, un riconoscimento che mancava da 20 anni all’Italia, con la loro consueta cura nel camminare sul confine labile della finzione e ricreando una realtà scenica che richiama fasti pirandelliani, in una cornice in cui si gioca volutamente con il bianco e nero e un phatos emotivo reso perfettamente dai “fine pena mai” di Rebibbia.

Ma i carcerati attori, che esibiscono la loro fedina penale nei momenti del film in cui si chiede loro di recitare la loro vita e la loro parte autobiografica non si atteggiano a “personaggi in cerca d’autore”, ma probabilmente a uomini alla ricerca di un qualunque margine di senso che viaggi oltre la segatura delle sbarre.

Perché quando le luci del palcoscenico si spengono e il sipario cala sulla scena, la catarsi dello spettatore si è immancabilmente compiuta ma il riscatto dettato dall’arte che viene perseguita e cercata dagli attori-carcerati funge da vera prigione, in quanto priva di quella libertà tale da renderla autentica.

 

“Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.” (dal Giulio Cesare- W.Shakespeare)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati