CASA SCONOSCIUTA

di Edoardo Orlandi

CASA SCONOSCIUTA

di Edoardo Orlandi

CASA SCONOSCIUTA

di Edoardo Orlandi

Credi veramente che non esista più un luogo inesplorato su questo suolo tondo e ventoso?

La globalizzazione e i flussi migratori trascinano milioni di persone in milioni di luoghi e danno l’idea che oramai non esista più un posto dove sia normale considerarsi straniero. Dov’è il luogo del dubbio? Dov’è finita quella piazza newyorkese in cui ti perdevi, tra un dito che indicava una via e lo sguardo dubbioso un’altra? Forse qui? Forse là? La ricerca del luogo del dubbio crea domande dubbiose; ma d’altronde si sa: al dubbio piace essere autoreferenziale.

Utopia lo chiamano alcuni. Ma questo non luogo ancora sconosciuto ha, e questo un po’ ti spaventa, caratteristiche a te note e familiari. È uno spazio che si traveste nel carnevale dei ricordi, nel giorno della memoria dei pianti. Esso è largo, lungo, saldo. Lui è caldo: è casa tua.

Da qui sei partito un giorno cercando nuove terre, nuovo pane che saziasse la fatica, un biglietto di sola andata desiderando un televisore più grande. E dopo lunghi anni di assenza, in un ritorno che sa di trionfo o di sconfitta, eccoti nuovamente sulla soglia di una casa che ha come colore una nuova specie di tulipani; ti si dispiega una realtà conosciuta ma diversa, un bacio materno di nuovo timido.

Le forme sono sempre le stesse: un giardino quadrato che ricorda la proprietà privata; la rotonda circolare della piazza degli amici; i musi triangolari dei vecchietti di paese. Ma i colori sono cambiati, certi divenuti più chiari, mischiati, altri assenti del tutto. E quel ritorno dal di fuori nel di dentro fa dire alla mente: “ Ma era veramente tutto così? Cos’è rimasto di quel che era?”

«Ma nulla è cambiato, mio caro. La penna che scriveva è ancora sul tavolo come l’hai lasciata. Il letto mamma non l’ha voluto spostare, anche se avrebbe dovuto sostituirlo con un bel mobile di legno di mogano». L’aggressività educata di un fratello invidioso ti dà la misura di quanto sei stato lontano. Allora, se nulla è cambiato a casa, bisogna scavare ancora più dentro se si vuole comprendere perché realmente tutto è mutato, bisogna bussare ad una porta più intima. Non si deve uscire neanche troppo dalla propria pelle perché ci si accorga che quel che era un animo immutabile nei suoi timori si è trasformato, si è conosciuto, si è apprezzato ed ora vive di nuove paure.

Difatti in ogni istante, sia di veglia che di sonno, l’Io proietta un’immagine latente del sé sugli oggetti che gli sono accanto e questo fa sì che tutto quel che si vede non sia semplicemente materia ma anche memoria, esperienza che se ne fa. Poi l’adattamento continuo, salto nella quotidianità attraverso l’ignoto, gioca un ruolo fondamentale sulla propria stima, autodeterminazione: più il salto è lungo, più l’identità si allarga. In questo modo non si osserva più solo l’inchiostro della penna o il tipo di legno del letto di casa, ma si proietta se stessi nella penna, quando diventa memento della prima lettera d’amore, oggetto dannato se è come ricordo di un fallimento. Riflettiamo il nostro io su tutta la materia che ci abbraccia, anche quella dietro la nuca, fino nelle doghe del nostro letto, se c’è il ricordo dei piedi caldi in quegli oggetti.

Quando questi cambiano, perciò, quando il luogo di casa non è più lo stesso, è a se stessi che bisogna guardare; essi mutano, mutando gli occhi che li osservano. Così è dalla identità cambiata dal viaggio che possiamo calcolare l’estraneità del ritorno in luoghi una volta conosciuti.

Credi veramente che non esista più un luogo inesplorato su questo suolo tondo e ventoso? Eppure continuamente la tua anima va dicendo: conosci te stesso, comprenditi, accogliti.

di Edoardo Orlandi, all rights reserved

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati