In rassegna alcuni dei film internazionali visti a Cannes (e a Roma)
Per concludere la nostra rassegna sulla 70esima edizione del Festival del Cinema di Cannes abbiamo aspettato per recuperare (sempre in versione originale, con sottotitoli in italiano) qualche film perso nel trambusto della Côte d’Azur e ne abbiamo approfittato grazie allo storico appuntamento con Le vie del Cinema da Cannes a Roma (e in regione) presentato da ANEC Lazio in partnership con SIAE ed in collaborazione con Regione Lazio e City Fest – Fondazione Cinema per Roma.
La Palma d’Oro The Square dello svedese Ruben Östlund (regista del bel Force majeure) non era tra i film proposti perché il regista ha deciso di aspettare e modificare il film di oltre due ore per ridurlo e trovare una migliore distribuzione in sala: la versione vista a Cannes quindi potrebbe non essere quella che sarà poi commercializzata.
Il film, seppur lungo, non è mai noioso: ha picchi di forte black humor, tipici di una tradizione scandinava e anglosassone, che accompagnano scene che prendono in giro la società borghese (in contrasto con i mendicanti ai margini della stessa) che si rinchiude in un quadrato illuminato di una mostra d’arte contemporanea, santuario controverso elogiato dal marketing, delineato da confini che creano contesto, ma anche fiducia o paura – come vuole dimostrare il protagonista Christian – interpretato dal bravo, affascinante e poco conosciuto Claes Bang – direttore della galleria d’arte.
La macchina da presa segue spesso i controcampi e le reazioni che nascondono quell’ironico sguardo alla vita perfetta di Christian nella sua casa pulita mentre i suoi occhi si posano con superiorità sulle scarpe nel corridoio e lo scimpanzè in soggiorno a casa della bionda intervistatrice (Elisabeth Moss). Sorprende anche la scena dell’uomo scimmia (Terry Notary) in una crudele rappresentazione degli schemi sociali e del perbenismo di una serata in black-tie. Iconico il rovistare nella spazzatura sotto la pioggia, mendicante di sé stesso in una rincorsa nelle scale di un palazzo e quella musica classica che fa da contorno ad una comunicazione digitale, ai media che si impossessano dell’essere tra pregiudizi, vulnerabilità represse ed una libertà di espressione che sconfina laddove non vi è responsabilità personale perché virtuale.
Forte accusa alla società egoistica moderna vi è anche nel film russo che ha ottenuto il Premio della Giuria e presente alla rassegna: Nelyubov (Loveless) di Andrey Zvyagintsev il regista di Leviathan, film nominato all’Oscar nel 2014 e vincitore di Cannes per la migliore sceneggiatura.
Potente musica iniziale a contrasto con il bianco candore di un silenzio spettrale: una coppia (i bravissimi Maryana Spivak e Andris Keišs) che non c’è più, ciascuno con il proprio amante (e l’amante del padre già incinta). Resta la ripugnanza di un pianto disperato e muto dietro la porta nel buio, un volto straziato dal sapere cosa sta per accadere nella sua famiglia disgregata e sola, dietro cellulari e senza amore. Il dodicenne Alyosha (Alexey Rozin) scappa di casa, le truppe speciali di volontari dai giubbini arancioni – che affiancano l’appesantita burocrazia di una polizia che non si muove – procedono nella triste scolorita realtà russa, figlia di un non amore: una realtà che sopravvive di egoismo ed edonismo, nel materialismo e nella ricerca di uno status, in una soggettiva che non conosciamo che chiede il numero ad una escort in un ristorante di lusso, mentre la Russia soccombe in questa critica aspra, carne strappata via come carta da parati nella neve della vergogna.
E sprofonda nelle viscere delle relazioni familiari anche The killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos: un film che fa male, che condanna gli occhi a lacrime di sangue quando il corpo respinge la vita, la musica di un thriller che martella come coltelli taglienti, stride con la fotografia di un albero che si espande, tra grandangoli e carrelli che rivelano primi piani e riprese conturbanti di bianche mani e la ferocia di un morso, nell’occhio geloso della lotta per amore, riscatto di un senso di colpa in una vendetta subdola, una roulette russa cieca nella sfida alla sopravvivenza.
Il greco Lanthimos, che vince come migliore sceneggiatura, incontra di nuovo Colin Farrell dopo The Lobster, che qui è invece un cardiologo che assieme alla moglie, l’algida Nicole Kidman, e ai figli Bob (Sunny Suljic) e Kim (Raffey Cassidy) deve affrontare la tormentata guerra psicologica di Martin (l’ipnotico Barry Keoghan, di cui sentiremo parlare), figlio di un suo paziente morto sotto i ferri, che condirà come ketchup con il sangue l’amore violento, un amore terrificante la cui lotta porterà a perdere la forza di camminare e di vivere in questo horror del plausibile assurdo che non lascia indifferenti.
La Kidman che con Colin Farrell era protagonista anche del film di Sofia Coppola, The Beguiled/L’Inganno (di cui abbiamo già parlato) a Cannes è passata di red carpet in red carpet, non in ultimo per il film fuori concorso di cui si è parlato tanto (e recuperato!) How to talk to girls at parties di John Cameron Mitchell dove fa l’inglese madre dello stile punk Boadicea.
Un film il cui titolo sembra una commedia americana da campus e invece nasconde una festa psichedelica dai colori plastificati, inquadrature trasversali ed una celebrazione del punk nella sua stessa omologazione di un 1977 che racconta l’incontro di un ragazzo musicista di Croydon, Enn (Alex Sharp) con una ragazza di una colonia straniera, Zan (la sempre più presente ai festival, Elle Fanning): ne esce un richiamo ai valori e agli ideali umani attraverso i colori dei chakra ma anche una rottura di schemi che prolifera attraverso un virus, quello delle nuove esperienze e dell’adattamento o della sfida alle abitudini sociali. Uno sci-fi con un budget ridotto che gioca con il punk britannico nell’anno del giubileo d’argento della regina Elisabetta e riscopre il testo omonimo di Neil Gaiman nella follia condita di musica e immagini di una storia d’amore surreale e ipergalattica.
(continua…)
di Alessandra Carrillo, all rigths reserved