BREXIT: ANCHE LA MODA DICE LA SUA

di Martina Cotena

BREXIT: ANCHE LA MODA DICE LA SUA

di Martina Cotena

BREXIT: ANCHE LA MODA DICE LA SUA

di Martina Cotena

Brexit: anche la moda dice la sua

Gli inglesi sono decisamente un popolo politically correct, un popolo che non urla ma riflette e agisce posatamente alle sfide della vita. La moda… la moda non rispecchia il pragmatismo e l’austerità con cui solitamente gli inglesi vengono etichettati, anzi.
La moda urla.
La moda si schiera.
La moda è “cattiva”.
L’inghilterra: patria dei punk e di Vivienne Westwood, casa dei Sex Pistols che gridavano «I wanna be Anarchy, in the City» indossando camicie strappate e abiti borchiati acquistati da SEX, il primo negozio di Vivienne. Lei, che da sempre è attiva politicamente e a favore del fronte europeista, già diverse settimane fa aveva pubblicato su Instagram una foto con indosso una t-shirt in cui invita gli inglesi a registrarsi per il voto.viviennewestwood[1]
Oggi, infatti, 23 giugno, la Gran Bretagna è chiamata alle urne per il referendum brexit sulla UE e rispondere alla domanda: leave o remain. La camera della moda inglese non si è sbilanciata (so english!) ma il 90% degli stilisti inglesi ha già detto NO alla Brexit, dichiarando che “restare in Europa è l’unica strada percorribile“.
Christopher Kane, vincitore di tre premi del British Fashion Council, ha dichiarato al New York Times: «Se la Gran Bretagna dovesse uscire dalla Ue, l’industria della moda non ha idea di cosa le accadrà. È spaventoso». Di fatti la sterlina, come ha ricordato la banca inglese HSBC, rischia di subire un deprezzamento del 20% e dato che la maggior parte dei tessuti, accessori e ricami è prodotta in Italia e in altri Paesi europei, un’uscita dalla Ue farebbe lievitare i prezzi della manifattura, senza contare eventuali tasse di import ed export.
Il colosso Burberry insieme al CEO e direttore creativo Christopher Bailey, oltre a firmare sul Times di Londra un appello per scongiurare l’uscita dalla Ue, hanno invitato tutto il loro staff a riflettere sulle conseguenze della brexit. Giustamente, oltre alle problematiche su produzione e prezzi, hanno sottolineato anche la questione del recruitment, poiché molte risorse della loro azienda sono appartenenti ad altre nazionalità dei paesi europei e portano avanti l’attività di selezione dei candidati su tutto il territorio europeo.
Da qui si solleva il problema legato all’intero popolo del fashion, abituato ad un continuo andirivieni tra le principali capitali della moda che rischierebbe di andare in tilt tra i visti e i permessi speciali che dovrebbero essere fatti ogni volta per le diverse fiere di settore sparse in tutta Europa e le quattro settimane della moda. La capitale della moda di Londra riceverebbe da tutto ciò un durissimo colpo, da cui non è detto riesca a risollevarsi.
Per non parlare poi dei danni per le diverse scuole di moda come la Central Saint Martins o la Royal College of Art in cui si contano ben 65 nazionalità diverse, senza citare i fondi che la Ue dà alle diverse scuole di moda della Gran Bretagna.daniel f

JW Anderson, Sibling London e Daniel Fletcher hanno mandato in pedana slogan e t-shirt pro Ue e sono solo alcuni degli stilisti che stanno cercando di portare gli inglesi a riflettere su ciò che potrebbe significare: una chiusura sul mondo.

E come scrive JW Anderson sul proprio profilo instagram: «What is lost is lost forever».

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