Non detto, detto male, depistato al Borsellino quater. Intervista ad Attilio Bolzoni

di Sabrina Cicala

Non detto, detto male, depistato al Borsellino quater. Intervista ad Attilio Bolzoni

di Sabrina Cicala

Non detto, detto male, depistato al Borsellino quater. Intervista ad Attilio Bolzoni

di Sabrina Cicala

Ventisei anni e di non detto, da quel 19 luglio 1992, ce n’è ancora tanto. Di “detto sbagliato”, invece, c’è qualcosa di meno. Mettiamo in ordine: nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza si autoaccusò del furto della Fiat 126 amaranto, incaricato da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano, riempita di tritolo per uccidere Paolo Borsellino. Dalla nuova ricostruzione dell’esecuzione dell’omicidio ha avuto inizio la revisione del processo che aveva visto le condanne di Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura.

Con il processo Borsellino quater quella distanza dalla verità che si era realizzata proprio nelle aule in cui si sarebbe dovuta accertare è stata ridotta. La Corte d’Assise di Caltanissetta il 1 luglio ha depositato le motivazioni della sentenza con cui sono stati condannati per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino, per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci.

Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, quel 19 luglio di ventisei anni fa corse in via D’Amelio, nella Palermo “che era peggio di Beirut”.

Il nome di questo procedimento, “Borsellino quater”, ha in sé la confessione della sua complessità: come si è arrivati al quarto capitolo?

In maniera assai tortuosa, nel senso che è successo qualcosa di clamoroso nell’inchiesta, c’è stata indagine su una indagine negli anni successivi, fatta tra l’altro su una strage così spaventosa. Ha dimostrato che depistaggi, investigazioni pilotate nell’immediatezza hanno trascinato le indagini lontano dalla verità.

Il pubblico ministero Luciani nella requisitoria ha evidenziato come il mandamento di Brancaccio sia “l’unico che ha avuto un protagonismo tanto in Capaci quanto via d’Amelio quanto nelle stragi ’93 ’94, pur a fronte di una mutevolezza di protagonisti Brancaccio è il filo conduttore dei fatti dal ’92 al ’94”. Cosa si può dare per certo della ricostruzione dei fatti relativi all’uccisione di Borsellino?

Appare evidente dalla ricostruzione dei magistrati di Caltanissetta che non sia stata solo Cosa nostra. L’accertamento compiuto dai magistrati ha confini e regole da rispettare: devono fare i magistrati. Il dottor Luciani e gli altri hanno fatto un lavoro straordinario, ma ciò che dalle carte emerge è che non sia stato un omicidio solo di mafia.

Protagonisti di questo processo sono stati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci: mancano gli attori istituzionali. La procura ha con forza risposto alle critiche avanzate sui suoi silenzi: “si è parlato di zoppìa del discorso del pm in relazione all’esame delle fonti di prova, di orticaria nei confronti dell’argomento trattativa e di pensiero malato del pubblico ministero, di amnesie per le vicende del castello Utveggio e in un’aula di giustizia si è parlato di ‘vergogna’ rivolgendosi al pm …L’ufficio di Procura non esclude la percorribilità di altre strade che possono condurre ad ambienti esterni a Cosa nostra ma, tuttavia, tali piste vanno percorse senza cedere a semplici intuizioni o indicazioni generiche o pulsioni di vario genere”. La stessa presenza occulta è dichiarata nella sentenza, dove si legge: ”È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”. E lo stesso Csm ha deciso di aprire un procedimento…

Bisogna subito chiarire una cosa: si è fatta molta confusione in questi anni e la confusione non aiuta. I magistrati hanno fatto benissimo il loro lavoro, che è dar prove dell’ipotesi accusatoria operando nei limiti del codice, portando le prove in giudizio. Negli anni passati ci sono state critiche veramente ingenerose per i magistrati, accusati di non aver indagato a fondo. Ciò che hanno fatto, invece, è stato un lavoro serio, con il rigore che richiede la legge.

Ma noi da italiani possiamo accontentarci di una verità storica sommaria? Con Borsellino quater certamente la distanza tra verità processuale e storia si è sensibilmente accorciata.

Qual è stato il ruolo dei giornalisti in questa ricerca di verità?

Parlo per me, credo che noi giornalisti abbiamo delle responsabilità enormi. Due, tre di noi dopo le stragi avevano intuito che il pentito Scarantino era marcio, pilotato. Non è che ci siamo voltati dall’altra parte, ma avevamo tanti di quei fronti aperti che abbiamo preferito  non approfondire i nostri dubbi, mentre ci saremmo dovuti mettere in quel momento di divergenza contro gli investigatori, i pubblici ministeri, i giudici di primo, secondo e terzo grado, e abbiamo preferito operare su altri fonti. Ma avevamo tutti gli strumenti per fare una mini inchiesta, seria, sui buchi neri del caso Scarantino e non l’abbiamo fatto. Ecco perché ci siamo comportati male

Sentito nel processo strage Capaci bis, lei ha detto che immediatamente avete avuto l’impressione che alla Addaura – luogo del fallito attentato al giudice Falcone, nel 1989- era accaduto qualcosa di anomalo, non tipicamente mafioso, perché Falcone parlò dell’autoria di “menti raffinatissime”. Il 23 maggio e poi il 19 luglio vi tornò in mente quella frase?

Siamo ancora fermi a quella frase, un magistrato come Falcone non parlava a caso mai. Aver pronunciato quelle parole, poche ore dopo il fallito attentato, voleva alludere ad un coinvolgimento non solo di cosa nostra, ma anche altri, ad una convergenza di interessi che sono sempre affiorati e mai chiariti fino in fondo. E’ evidente che Giovanni Falcone abbia cominciato a morire quel giorno all’Addaura. Io tengo sempre ad evidenziare che bisogna distinguere la verità giudiziaria e la storia, anche sulla strage di Capaci. Anche lì i magistrati fecero un ottimo lavoro, per la prima volta tutta la cupola era in carcere. Ma è sufficiente, basta agli italiani? Possiamo accontentarci?

Basta ripensare al fatto che nel dicembre 1991 una squadretta di mafiosi era salita a Roma, armata, per uccidere Falcone,che andava a mangiare con giornalisti e colleghi magistrati la carbonara a Campo dei Fiori… era bersaglio facile. Eppure Riina (cosa che è stata riscontrata processualmente) richiamò quella squadretta di sicari, perché Falcone sarebbe dovuto morire in altro modo, in quello che poi abbiamo visto. Ed è in quel modo, anche, che si rintracciano le impronte digitali dei mandanti, che secondo me non sono solo mandanti di mafia.

Lei una opinione sui reali interessi, sulle finalità perseguite da quei soggetti, che hanno deviato le indagini, se l’è fatta? Ricordiamo che la sentenza ha riconosciuto al capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera il “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”.

Ho conosciuto Arnaldo La Barbera, era diventato capo mobile, nell’agosto del 1988, dopo la clamorosa intervista che Paolo Borsellino rilasciò a L’Unità e a La Repubblica in cui denunciò l’intervenuta interruzione della lotta alla mafia. Borsellino allora era procuratore capo a Mazzara. Dopo la clamorosa bocciatura di Falcone a capo ufficio istruzione di Palermo, proprio a me dichiarò “La lotta alla mafia? I segnali non sono certo molto incoraggianti. Per almeno tre ragioni: il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxi-processo, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa Nostra, e poi ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura della Repubblica di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro, come dieci, venti anni fa…Tutto questo, senza fare dietrologie, si sta verificando in un momento di grande stanchezza, in un momento dove si credeva a torto che con il maxi-processo la mafia era stata sconfitta, che tutto si doveva risolvere nell’aula bunker. E così si è lasciato perdere tutto il resto“.

Le ultime indagini erano state fatte da Ninni Cassarà e Beppe Montana, assassinati nel 1985… fu proprio in quel periodo che arrivò La Barbera. Penso che non abbia fatto tutto da solo. Mi viene in mente un episodio, in occasione dell’omicidio di Antonino Agostino nell’agosto 1989. Il padre, testimone di quell’omicidio, racconta che La Barbera gli fece vedere- per riconoscerlo come assassino di suo figlio- una foto di Scarantino. A Palermo diciamo che Scarantino era pronto per essere utilizzato alla bisogna per qualsiasi delitto eccellente di Palermo, con via D’Amelio ci sono riusciti. Ci sono stati buchi neri da parte di apparati dello stato, da una parte un vero depistaggio, dall’altra dei magistrati che non hanno fatto le loro verifiche. Tutte le indagini delle grandi stragi al nord e sud, quelle sugli attentati sui treni, piazza Fontana, piazza della Loggia a Brescia… nella storia dell’Italia ci sono pezzi dello Stato che lavorano per cercare verità e pezzi Stato che lavorano perché quella verità si allontani. Non è un inedito del caso Borsellino.

Si è voluto desumere da questo processo qualcosa che questo processo non voleva dire: ossia elementi della inesistenza di una trattativa Stato mafia. In realtà, la procura ha detto altro, cioè che, in questo procedimento, non è emersa contezza da parte di Cosa Nostra dell’atteggiamento di Borsellino sulla trattativa. Sono legittime comunque interferenze tra i due procedimenti, anche solo dal punto di vista “laico”?

C’è un processo a Palermo, conclusosi in primo grado pochi mesi fa in maniera sorprendente, perché tutti gli indizi portavano in altra direzione. Sorprendente, quindi, rispetto alle altre sentenze, c’era stata qualche anno fa una assoluzione a Roma, quella di Mannino…

Che ci sia un collegamento tra l’uccisione di Borsellino e la trattativa è scontato ma in quali termini? Bisogna vedere cosa accertano magistrati e quale quadro possiamo invece disegnare da un punto di vista storico. Ma abbiamo bisogno di una sentenza di tribunale per sapere se lo Stato italiano ha trattato con i mafiosi? Un pezzo dello Stato da quando lo Stato è nato, e ancora prima, ha trattato: usciamo da luoghi comuni. Ha sempre trattato con organizzazioni mafiose. La difficoltà è portarlo in tribunale e incastrarlo nel contesto di cose clamorose come le stragi. Sappiamo tutto e niente. Ad esempio, perché dopo le stragi non è scoppiato neppure un mortaretto per la festa di Santa Rosalia?

Lei il 19 luglio era in via D’Amelio.  In ventisei anni a che punto è arrivato il contrasto alla mafia, anzitutto da parte della società civile e poi dalla politica, soprattutto in questo attuale governo?

Quella mafia che abbiamo conosciuto, corleonese, così di stampo terroristico è una anomalia assoluta nel panorama mafioso secolare, dopo 200 anni ha deciso di sferrare un attacco a quella parte dello Stato che si metteva di traverso. La strategia delle bombe ha chiuso una stagione. Negli anni successivi c’è stata una repressione implacabile, possiamo dire che lo Stato ha vinto su quella mafia. Quella che è tornata è un’altra, o meglio, è quella di sempre, si è riappropriata della sua natura. È tornata ad evitare lo scontro con lo Stato, preferendo piuttosto condividere, cercare accordi con l’imprenditoria, con le istutizioni. Ci sono inchieste che lo indicano univocamente.

La società ha reagito forte immediatamente dopo, poi si è persa, così è accaduto alle associazioni antimafia che hanno perso carica, sono diventate docili. Hanno più pensato ai finanziamenti che ad elaborare una strategia.

Se, invece, pensiamo alla politica, basta l’attualità: il ministro dell’ interno ha detto che la mafia gli fa schifo. Che la mafia fa schifo lo ha detto la prima volta Cuffaro, governatore della Sicilia, condannato per favoreggiamento a Cosa nostra, lo gridano i mafiosi, i ragazzi ai cortei. È un modo per  banalizzare, spettacolarizzare la lotta. Viene riconosciuta quando non porta la maschera, quando si manifesta con violenza. Nessuno, men che meno la politica, vuole approfondire come si è trasformata e come sia tornata se stessa. Nei programmi dei candidati premier nessuno parlò di mafia. Durante la campagna elettorale per le elezioni regionali 2017 i candidati del Movimento Cinque Stelle non l’hanno pronunciata una solta volta. Questo è molto significativo.

 

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