BEIGE, OVVERO IL CANE CHE FUGGE – ROUND MIDNIGHT AL MARGUTTA

di Leonardo Gallato

BEIGE, OVVERO IL CANE CHE FUGGE – ROUND MIDNIGHT AL MARGUTTA

di Leonardo Gallato

BEIGE, OVVERO IL CANE CHE FUGGE – ROUND MIDNIGHT AL MARGUTTA

di Leonardo Gallato

Il concerto di Letizia Felluga al Margutta Jazz Festival, 30/01/2017

Ah, via Margutta. Una stradina tranquilla, una minuscola isola di pace a due passi dalla bolgia infernale di turisti del centro di Roma. Ah, via Margutta. Le gallerie d’arte, gli artisti contemporanei, quelli passati: Fellini e la sua Giulietta, De Chirico, Picasso. Ah, via Margutta e  i paradossi della Storia: tanta bellezza in un luogo che forse tanto bello non era, come ci indica l’etimo del nome, derivante forse da un bizzarro eufemismo, Marisgutta, ossia goccia di mare. Tanto più bizzarro se pensiamo che forse quest’appellativo era stato attribuito ad un rigagnolo che scendeva dal Pincio e che in passato, era adibito, meno poeticamente, a cloaca naturale. Ad ogni modo, conscio del fatto che questi eruditismi vi avranno, forse, già stancato, vi starete, ora, chiedendo cosa c’entri tutto questo con la musica. Ebbene, Via Margutta, prima cloaca naturale e dopo elegantissima via ricca di botteghe d’arte e legata più genericamente alle arti visive, è oggi sede, presso un locale che dalla via stessa prende il nome, Il Margutta, di Round Midnight, un jazz festival dagli ospiti molto varii. Letizia Felluga in Via Margutta

Arrivo come sempre leggermente in anticipo, per ambientarmi un po’ prima dell’esibizione di Letizia Felluga. Il locale è molto elegante e ben si confà all’atmosfera tranquilla della nostra cara Via, che in un lunedì sera di fine gennaio è un piacevolissimo deserto. Mi fanno accomodare al tavolo riservato per la stampa. La sala dove si svolge il concerto è immersa in una luce soffusa, intima e avvolgente. Tanti tavolini illuminati solo dalle flebili fiammelle delle candele. Mi portano degli stuzzichini, salati e dolci, che osano molto negli accostamenti: segno che l’eccentricità artistica della Via ha attecchito anche nell’arte culinaria. I risultati sono comunque degni della levatura artistica della Via. Prima che il concerto inizi, prende la parola Max de Tomassi, critico musicale e conduttore dello storico programma Brasil di Rai Radio Uno, che ci introduce allo spettacolo. Ecco allora sul palco la formazione: Letizia Felluga alla voce, Giovanni Ceccarelli al piano e Alessandro Marzi alla batteria. Letizia viene subito accostata da de Tomassi alla musica brasiliana, punto d’incontro tra il critico-presentatore e la cantante stessa. Fatte le debite presentazioni, comicia allora il concerto. Il primo brano è, per l’appunto, una bossa. Noto subito delle note estremamente positive: innanzitutto il lavoro del fonico di sala. I volumi sono bassissimi, quasi non si avverte che gli strumenti sono amplificati, e ciò favorisce, e di molto, l’attenzione del pubblico, nonché l’instaurarsi di un ambiente ancora più intimo. La seconda nota positiva è Letizia stessa: la sua voce è calda (anche se timbricamente non particolarissima) e non prova mai a strafare, come invece tante colleghe jazziste o pseudo tali al suo posto farebbero. Mi è sembrato allora strano come, nel corso della serata, nonostante la professionalità della tecnica vocale, la Felluga troppo spesso abbia avuto uno scarso controllo dell’intonazione. Ma si sa, la voce è uno strumento talmente particolare, che una serata meno in forma di altre si può anche perdonare, forse, persino a dei professionisti.

La scaletta continua con due brani inediti, scritti, come ci dice lei stessa, insieme al maestro dei suoi anni di studio alla Goldsmiths University: Michael King. Continua poi con delle cover, tra cui Giovanotto matto di Luttazzi, e una grigina Pigro di Pino Daniele. L’atmosfera musicale è molto tranquilla e calza a pennello con la natura e l’eleganza del luogo. Ci sarebbe stato bene un po’ di pepe in più, ma va bene così: una serata tranquilla in un locale tranquillo (anche se la tranquillità, dopo un po’, ristagna).  È soprattutto il sound della formazione a lasciarmi un po’ perplesso: un prepotente vacuum tra le frequenze destabilizza la mia attenzione. L’assenza del contrabbasso si fa sentire, e parecchio. Non sono un tradizionalista, non fraintendete: mi piacciono questo tipo di soluzioni, per non parlare della sperimentazione sul sound in generale. Dico più semplicemente che magari andava fatto un lavoro di arrangiamento più accurato, per riempire quel vuoto che senza uno strumento così fondamentale viene a crearsi. Il lavoro più grosso avrebbe dovuto farlo ovviamente il pianoforte, che invece si è comportato sempre e solo come se stesse suonando in una formazione al completo. Prova ne è stato l’assordante vuoto cosmico che ad esempio si è venuto a creare in un brano swing come quello di Luttazzi. Via-Margutta

Mi sembra di poter affermare che le ballad siano state invece il cavallo di battaglia del trio: molto pulite, distese, sentite. Il Brasile che invece avrebbe dovuto sentirsi nel canto e nella voce della Felluga, si sente solo nei due brani sudamericani della scaletta, e mai all’infuori di essi. La bossa iniziale e l’energico samba poco prima della fine, creano volutamente una Ringkomposition, forse al fine di enfatizzare quest’«interiorizzazione del Brasile nella voce di Letizia» (come aveva detto all’inizio Max de Tomassi), che invece si avverte a fatica in tutto il live.

La serata si conclude con una ballad, una cover del maestro di Letizia, Michael King. Serata che finisce così come era cominciata, senza lode né biasimo. Non noia, anzi, ma nemmeno entusiasmo. Un buon jazz di sottofondo. Una serata tiepida, grigia, o forse, sarebbe meglio dire, con una valenza meno negativa, beige: un colore quasi neutro, quasi impercettibile. Un colore che c’è ma di cui si fa fatica a capirne la tonalità. Insomma il colore, per dirla con un’espressione più colorita mutuata dalla vitalità dialettale del nostro amato Meridione, «del cane che fugge».

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