BARNETT NEWMAN: DIPINGERE L’IMPOSSIBILE

di Salvatore Setola

BARNETT NEWMAN: DIPINGERE L’IMPOSSIBILE

di Salvatore Setola

BARNETT NEWMAN: DIPINGERE L’IMPOSSIBILE

di Salvatore Setola

Per un ebreo è complicato essere pittore. La religione ebraica, infatti, vieta di rappresentare Dio e il creato. Tale prescrizione implica di fatto una rinuncia alle immagini, ossia al prodotto principale di quella che l’Occidente da secoli intende per attività artistica. L’arte cristiana, supportata dalla teologia, aggira questo divieto facendo riferimento alla doppia natura di Cristo: se Dio è inimmaginabile – ovvero non può essere ridotto a immagine – tuttavia si è incarnato in suo figlio Gesù, il quale può essere raffigurato proprio in quanto uomo. Un uomo che, pur facendosi carico della presenza di Dio nel mondo, svuotò la sua condizione divina accettando l’umiliazione tutta umana della Crocifissione. La celebre frase “Chi ha visto me, ha visto il padre” per estensione può essere interpretata come “chi rappresenta la mia persona, rappresenta Dio”. Questo sillogismo nella religione ebraica è completamente invalidato in quanto l’unica icona di Dio ammissibile è la parola stessa, scritta e rivelata nel sacro rotolo della Torah. L’invisibile Yahweh, dunque, per gli ebrei è un’entità, un concetto non violabile, di cui si può parlare e si può scrivere, ma di cui non ci si può formare un’immagine perché semplicemente i sensi umani risultano inadeguati. Con questo divieto dovette scontrarsi Chaim Soutine, pittore ossessionato dalle contorsioni della carne che fu avversato dal padre. A Chagall invece andò decisamente meglio giacché, fin dall’apprendistato nel villaggio bielorusso di Vitebsk, non gli mancò mai il supporto della famiglia. Fu però l’invenzione dell’arte astratta – ossia la possibilità di ricorrere a un linguaggio pittorico aniconico, cioè privo di figure – a offrire uno strumento concreto ai pittori ebrei per rappresentare l’irrappresentabile. Tra questi Barnett Newman, uno dei più importanti esponenti della cosiddetta Scuola di New York, che nel 1948 scrisse il testo Il Sublime, adesso.

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Barnett Newman

“Sublime” – dal latino “sub” (sotto) e “limen” (limite) –  etimologicamente significa “che giunge fin sotto la soglia più alta”. È un concetto estetico la cui speculazione filosofica ha avuto inizio – almeno in tempi moderni – col saggio Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee del Sublime e del Bello (1757) di Edmund Burke. L’oscurità, il vuoto, il silenzio, il senso di pericolo generano in noi un’emozione di stupore e orrore, inducono cioè un sentimento di terribile piacere o “piacere per il terribile” che non può essere razionalmente controllato. Per Burke il sublime si dà quando ci troviamo in balìa di situazioni esterne o eventi naturali che superano i nostri umani limiti. Kant, invece nella Critica del giudizio (1790) individua due distinte categorie di sublime: il sublime matematico e il sublime dinamico. Per esempio, la contemplazione di un cielo stellato – davanti alla cui illimitatezza avvertiamo i nostri sensi come insufficienti – è ascrivibile al sublime matematico, mentre il mare in tempesta o un vulcano in eruzione – le cui visioni sprigionano una potenza capace di atterrirci – incarnano viceversa esempi di sublime dinamico. In ambedue le casistiche, davanti all’immensità del cielo stellato o all’imponenza colossale di una bufera, la sfera sensoriale umana si rivela inadeguata perché non riesce né a figurarsi una grandezza così parossisticamente vasta, come il cielo nella sua incommensurabilità, né a formulare una reazione alla potenza di un evento così terrificante. L’uomo si riscopre piccolo, infimo, e nondimeno il fatto di essere lì presente, di essere partecipe di cotanta meraviglia e panico, lo conduce a quella soglia dove immaginazione e ragione confliggono.

Proprio come il Dio ebraico il sublime in sé non può essere rappresentato, poiché le nostre facoltà intellettive riescono a concepire il limite ma non sono in grado di esibirlo in un’immagine. Un bravo artista, al massimo, potrà ricreare sulla tela le manifestazioni naturali atte a suscitare nell’uomo tale ineffabile sensazione.

Nelle opere di Barnett Newman, invece, il sublime si scinde definitivamente dalle cause naturali esterne e diventa svuotamento iconografico, supremazia del nulla. Nella metà del Novecento, con l’avvento dei linguaggi astratti, l’arte rese finalmente accessibile ai sensi – ovvero alla vista – ciò che i sensi non possono figurarsi. Il sublime, dunque.

Onement I
Onement, I (1948)

Newman rimproverava all’arte moderna l’incapacità di affrancarsi dalle immagini rinascimentali, disseminate di «figure e cose», per vie altre che non fossero quelle della deformazione o, all’opposto, di un formalismo esasperato fatto di puri rapporti geometrici. La strada battuta dall’artista americano fu altra rispetto a quelle percorse dalle avanguardie storiche. Nel 1948 iniziò a dipingere delle enormi tele con un solo colore, solitamente molto intenso, rompendo la monotonia cromatica grazie all’inserimento di una o più strisce verticali – talvolta tracciate con rigore geometrico, altre con sbavature impulsive – definite zip: elementi che sembrano fornire all’occhio un appiglio senza il quale naufragherebbe nel vuoto. Le zip, realizzate con colori a olio su una base di tempera o acrilico, si manifestano come attimi di luce che accadono, il qui e ora del sublime. Un angelo –  ebbe a dire Lyotard – “che non annuncia niente, è l’annuncio stesso”.

Primissimo esempio delle famose zip è Onement I (1948). Il titolo è enigmatico: composto dalla parola “one” (uno) e dal suffisso “ment” (corrispondete ai nostri “zione” o “mento”), è stato interpretato ora come un riferimento all’unicità di Dio ora come il momento della creazione, l’uno da cui luce e tenebre, spazio e tempo si separarono. Quale che sia la corretta interpretazione, in entrambi i casi si tratta di concetti che possono essere detti ma non mostrati. Non esiste forma che l’uomo possa figurarsi per rappresentarli. E infatti il dipinto di Newman non ha una vera e propria forma. È una scintilla che si separa dal nulla monocromo, un inizio infinito che non smette mai di cominciare. Un eterno “adesso”. Esistere etimologicamente significa “stare fuori”. Ossia venire fuori dal nulla. Quindi non bisogna tanto chiedersi cosa sono le zip quanto prendere semplicemente atto che esse sono lì. Non a caso un’altra serie di lavori di Newman si intitola  Be. Essere.

Be
Be, Second Version (1970)

Persino la Passione di Cristo sulla croce – che è dolore umano e in quanto tale assolutamente comprensibile per chiunque condivida il dramma della carne – assume in Newman le sembianze di una viva assenza. Le sue Stations of the Cross – il ciclo dedicato alla Via Crucis presentato per la prima volta nel 1966 al Guggenheim di New York – la rappresentano come evento impresentabile che tuttavia si palesa.

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Stations of the Cross, 1966

Le quattordici stazioni della croce sono quattordici tele “vuote” – dipinte uniformemente con bianco e  nero – che sublimano il dolore, lo rendono invisibile e proprio per questo lo assolutizzano, con una forza pari e contraria alle crocifissioni tradizionali. Non vediamo il corpo del Redentore cedere per tre volte sotto il peso della croce, non lo vediamo mentre allo stremo delle forze viene soccorso dalla Veronica, non indaghiamo come un anatomista il fondo delle sue piaghe. Non vediamo la sofferenza di Cristo – perché è impossibile vederla – ma sappiamo che è lì, davanti a noi. Il limite di un dolore altrui che è impossibile vedere se prima non lo sentiamo nostro. Il titolo della mostra che riunì  l’intero corpus era Lema Sabachthani, la disperata domanda che Gesù, nei suoi ultimi istanti, rivolge al Padre: «perché mi hai abbandonato?». Un appello, destinato a cadere nel silenzio, in cui è racchiuso tutto il fragile senso della vita umana. L’agonia a tappe delle  Stations of The Cross coincide dunque con l’irreversibile cammino di tutti gli uomini di tutti i tempi. L’umanità di un dio. Lo sforzo di una carriera fu “mantenerlo, questo mondo senza fine, entro i limiti del quadro”. Nel 1951, nel corso di una mostra, un visitatore si avvicinò all’artista per chiedergli quanto tempo avesse impiegato a realizzare uno di quei quadri colossali. La risposta che Barnett Newman gli diede suona come la migliore esegesi della sua opera: “ho impiegato un secondo, ma quel secondo è durato una vita”.

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