ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte I)

di Salvatore Setola

ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte I)

di Salvatore Setola

ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte I)

di Salvatore Setola

È opinione diffusa che l’arte sia una disciplina inutile, priva di qualsivoglia scopo pratico. Per molti cultori è una vetrina piena di suppellettili preziosi e “intoccabili” da fruire a esclusivo diletto intellettuale o per puro piacere visivo. Per alcuni appassionati un mondo parallelo più bello, più colorato e più fantasioso dove trovare rifugio dalla monotonia talvolta asfissiante del mondo reale. Persino gli storici dell’arte la trattano spesso con superficialità, quando davanti a un dipinto – non avendo di meglio da dire – si soffermano sulla qualità dei panneggi, sul tocco del maestro e altri ameni luoghi comuni che dell’opera non dicono un bel niente. Tanto ce la si può sempre cavare buttandola sul mito della sindrome di Stendhal o citando il povero Dostoevskij, il quale, pronunciando l’abusata frase “La bellezza salverà il mondo”, disse una gran cazzata. Gli stessi nazisti – travisando Schiller (“È la bellezza che porta alla libertà”) – partirono da premesse piuttosto simili. Il loro depravato sogno di una razza pura si reggeva su una suddivisione della società in due categorie: quelli che si facevano portatori di un’ideale di bellezza salvifico e quelli che, la bellezza, dovevano subirla, o al massimo contemplarla a debita distanza. Di conseguenza la politica culturale del Terzo Reich impose un’arte di regime che doveva sottostare ai medesimi canoni di arianità non contaminata chiamati a redimere una Germania inquinata dalla degenerazione nel brutto, nell’impuro e nel bastardo anche dal punto di vista artistico. Dostoevskij e Schiller erano in buona fede, ma avevano preso un granchio. Grosso. È consolatorio – e pure comodo – pensare che la bellezza possa riscattare le bestialità commesse dagli uomini, sfortunatamente – a differenza di quanto si pensi – l’arte non ci redime. Nondimeno ci confessa: è un parroco che non ci darà mai il sollievo dell’assoluzione.
Il filosofo Arthur Danto ha scritto che l’arte è uno strumento grazie al quale riusciamo a vedere quel che di noi non potremmo altrimenti mai conoscere. Funziona esattamente come lo specchio che abbiamo in bagno. Senza il suo tramite intere porzioni del nostro corpo ci resterebbero occulte. Ecco la sua utilità. Come uno specchio l’arte rivela parti di noi sconosciute, è una finestra spalancata sul nostro mondo interiore. Ci fa capire chi siamo, definisce la nostra identità.

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Le più imminenti coordinate che un essere umano ha per definire se stesso sono la memoria e la storia, ovvero i due temi con cui l’arte di Anselm Kiefer – forse il più grande pittore vivente – più che incontrarsi, si scontra. La sua viscosa pittura somiglia a una lotta, una battaglia che ci porta ad accettare quello che siamo stati. Nel positivo e nel negativo. Dunque se in quella memoria e in quella storia ci sono le tragedie, le colpe, il male, è di quello che – per forza di cose – ci rende consapevoli. Chi cerca l’assoluzione, non è ad Anselm Kiefer che deve rivolgersi.413-Anselm-Kiefer-01
Per un artista tedesco nato nell’anno in cui la Seconda Guerra Mondiale volgeva al termine, il passato di cui prendere immediatamente coscienza era quello dell’Olocausto, risalendo da lì a ritroso lungo la grande tradizione filosofica nazionale (Heidegger e Nietzsche soprattutto), la favolosa stagione del Romanticismo (la totalità dell’uomo con l’universo celebrata dalla poesia di Hölderlin) fino a giungere alle radici della cultura tedesca, che affondano non solo nella mitologia germanica ma anche nella spiritualità ebraica, come asserisce un’opera del 1983 intitolata “La via della saggezza terrena”. L’immagine – una tecnica mista su carta e tela – mostra ritratti di personaggi illustri della cultura tedesca, le cui idee furono distorte dai nazisti per fini propagandistici, collegati tra loro dalle radici di possenti arbusti. Il luogo in cui questi ritratti sono calati è la foresta di Teutoburg, dove nell’anno 9 il condottiero Hermann, ingannando le legioni romane di Publio Quintilio Varo, guidò una coalizione di tribù germaniche verso l’indipendenza. Un’iscrizione, in basso a destra, commemora l’eroe teutonico, delle cui gesta proprio i nazisti si erano impadroniti allo scopo di fornire una prova storica della presunta superiorità della razza ariana. Il suo ritratto, come quello degli altri eroi della cultura tedesca, brucia nel fuco purificatore al centro della foresta, restituendo a questo Pantheon di illustri antenati una connotazione politica neutra che il Nazismo aveva subdolamente forzato. Il fuoco come elemento di purificazione ricorre nel simbolismo ebraico, piazzarlo nel cuore fondante dell’identità tedesca significa ristabilire al centro della germanicità la componente ebraica che proprio i nazisti avevano cercato di rimuovere.

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La via della saggezza terrena (1982; xilografia, emulsione e collage su carta e tela)

“La via della saggezza terrena” è il genere di opere che ha indotto il critico Germano Celant ad affermare a proposito della pittura di Kiefer: «Grazie alla conoscenza del proprio passato, in forma politica o mitologica, tra tragedia e leggenda, egli cerca di figurarsi in un altro luogo, quello di un essere solo davanti alla Storia». La pittura caravaggesca è piena di esseri soli davanti alla storia. Un “Cristo Legato” di Ribera, custodito presso la quadreria dei Girolamini di Napoli, presenta Gesù in prigione mentre viene ammanettato da un carceriere avvolto nell’ombra. Quest’ultimo ha la faccia di un popolano e uno sguardo compassionevole. È il volto di chi probabilmente riconosce il Figlio di Dio davanti a sé, ma – essendo una di quelle silenziose formiche che fanno la storia senza scrivere la Storia – non può far altro che portare a termine il proprio compito, impossibilitato a cambiare il corso degli eventi. Come nei dipinti caravaggeschi anche nell’arte di Kiefer si manifesta la dialettica tra luce e tenebre, assumendo qui dei significati completamente diversi. In questo caso, come rileva ancora Celant, “non si tratta di separare le tenebre dalla luce, ma di riassimilare le tenebre”. Mentre nell’arte caravaggesca, in un’ottica cristiana, la luce fende le tenebre, e le vince, dimostrando che nel mondo c’è il male ma che questo male può essere funzionale al progetto divino di redenzione (come esemplifica la vicenda di San Paolo, che non a caso trova nella “Conversione di Saulo” di Caravaggio la sua immagine pittorica più potente), per Kiefer luce e tenebre non sono due opposti di cui il secondo origina dall’assenza del primo. Luce e tenebre, bene e male, sono esattamente la stessa cosa.

Parte II:https://www.thefreak.it/anselm-kiefer-parte-2/

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