Anna. I monologhi della banchina 2

di Vittoria Favaron

Anna. I monologhi della banchina 2

di Vittoria Favaron

Anna. I monologhi della banchina 2

di Vittoria Favaron

Regent’s street e le sue luci. Natale, un crogiuolo di luoghi comuni e palline colorate. Io attendo l’88 bus e la sua biblica lentezza, al pari del suo omonimo romano. Il freddo trapassa ma riesco a contenerlo. Difficile fare altrettanto con sinapsi e attese correlate. Londra e il suo falso calore natalizio, e l’Italia è lontana, e Anna non c’è. Anna era la mia donna. Tutto qua. No, Anna era la mia compagna da 8 anni. Anna e un altro natale senza. Anna è tornata a casa, in Italia. Anna. E’ finita così. Un giorno torni a casa, dopo 14 ore ripetute a dibattere di una cazzo di fusione societaria e trovi l’odore di lavanda in stucchevole pervasione, ovunque. Trovi il tavolo di vetro lucido e ordinato, e trovi lì posate il secondo paio di chiavi, e Anna non c’è. Entri nella stanza da letto per gettare nervoso la giacca lana windsor e la borsa con il pc. Le gesta quotidiane e le noiose scansioni di routine, e il tuo dopo-barba, sempre ovunque. E Anna non c’è. E ti aspetti di trovarla, o di trovare una traccia di dinamico distacco. Una rapida uscita, una chiamata improvvisa, delle amiche in cerca. Anna non ha amiche, ha solo me. Mancava il sale, forse. O il pane, o la paprika di cui lei andava matta. E inizi ad aspettarla mentre ti versi un cognac. E aspetti. E ancora. E non torna. E allora telefoni, cellulari, sudore profondo, incomprensione, confusione, buio completo. Ansia, preoccupazione. Forse è in ospedale, un incidente, investita, malore per strada, è incinta, è sotto stato di shock. Anna è andata via, questo alla fine è accaduto.

Senza una parola, che sia un biglietto sul frigorifero, una lettera su quel dannato tavolino di vetro, un pezzo di carta sul letto, una traccia sullo specchio. Se ne andò sul serio, davanti a tutto il mio sgomento.

Anna e quando ci siamo incontrati per la prima volta alle macchinette del caffè dell’Università. Il suo essere dolcemente schiva e i suoi occhi neri coraggio.

Anna e i suoi capelli di miele e la sua voce bassa, la sua risata sconvolgente, fragorosa e colma di tutto quello che non riusciva a dire il suo cuore.

Anna e quando ha staccato quella foglia d’alloro dalla mia corona troppo pesante, sul quel porticato, mentre sancivo il mio plauso accademico e la mia ambizione che sapeva di morte.

Anna e le sue gambe lunghe e forti, incrociate alle mie. Il prato, e la mia voglia di ballare con lei. Senza musica, solo la mia voce adagiata sul suo orecchio, mentre intonavo il migliore Fossati, e la nostra canzone d’amore. Vicini, invincibili.

Seguimi, le dissi. Andiamo via da qui, da questo paese senza fame.

Andiamo via e costruiamo la nostra casa, il nostro nido. Sposami Anna. Credici. Sarai Felice.

Lontano, a Londra, mille chilometri di sogni, nelle mani strette dentro un gate gelido.

Amami Anna, una volta tanto. Continua a seguirmi, tienimi in ascolto. Andrà  bene, a noi.

Io e il mio lavoro. Troppe le ore. Io e la mia brama di successo, io e la voglia di essere un qualcuno in una massa di colletti bianchi.

Io che volevo il denaro, volevo il bigliettino da visita color avorio, i pranzi, le pause caffè, il premio di produzione, i convegni internazionali, i brevetti, i complimenti.

E lei con me, per sempre. A casa, ad attendermi. Il suo sorriso, che trasportava tutto il sole che avevamo lasciato, il calore che mancava, in quelle pareti fredde, in quelle strade ostili, glaciali. In quella terra non nostra, da ospiti, clandestini, stranieri per scelta.

Anna e i suoi anelli sparsi tra le mie mutande. Tutti i regali che adesso odorano di senso di colpa, lasciati nei cassetti, abbandonati come inutili centesimi.

Anna e quella chiesa in campagna che doveva essere nostra. Quel desiderio di sancire un legame che avrebbe solcato anni e noiosi giorni, che avrebbe fatto di noi quello che altri non erano stati in grado di compiere, la nostra favola, una solida unione, il nostro gioco di famiglia, come sola Itaca possibile.

Anna e il mio lavoro. La mia cecità . Non ricordo il suo sorriso spegnersi, il suo entusiasmo sopirsi, il sesso alle feste comandate, gli sguardi bassi, le ipocrisie crescenti.

Cieco, come uno squalo. Come chi non scorge l’altrui disagio, come colui che scambia l’amore per scadenze quotidiane e vino in fresco, aperitivi con i colleghi e tubini neri costernati di perle.

Anna e quello che eravamo diventati. Come quelle coppie di Ascott che parlano del polo e del martini caldo, senza anima, senza cuore.

Anna e tutta l’energia sprecata, la sua pelle di colpo opaca, trasparente. Non pulsava sangue, solo disincanto e bugie.

Anna e il suo silenzio, e il mio passerà . Perché non hai parlato, non hai urlato, non hai rotto quella cortina di inutile borghesia eretta, quello squallore benestante, quell’essere diventati peggiori dei genitori dei nostri amici.

Dovevi urlare, Anna. Dovevi picchiarmi, darmi calci in faccia, scuotere il mio finto benessere e farmi tornare umano, giovane, puro.

Sei andata via, come il peggiore dei ladri.

Sei stata cattiva Anna. Sei stata onesta, Anna. Sei stata più forte di me, di noi.

Sei stata viva.

Mi hai lasciato con le camicie stirate e la cena nel forno. Mi hai lasciato in un’amara consapevolezza dei brandelli disseminati dei nostri corpi al macello.

Hai lasciato me e non hai lasciato scia. E io non ti guardavo. Non più.

Non guardavo il cancro di incomprensioni sommate, non guardavo il malessere dei tuoi giorni vuoti e delle mie riunioni notturne. Dei tuoi vestiti da cocktail e delle lacrime sui miei maglioni.

Odio tutte le tisane nella nostra cucina, posate immobili e severe che mi guardano ogni mattina. Odio il tuo profumo sulle lenzuola, e odio la parte destra del mio letto, vuota.

Odio me stesso, il mio fallimento, il mio romanticismo in perdita, la mia testa annebbiata, la mia sconfitta concreta.

Non ti ho tenuta con me. Questo è quanto.

E Regent’s street mi guarda con una rabbia accesa e rimprovera con i suoi palazzi austeri la mia totale incapacità di comprenderti.

E odio il Natale e tutto questo candore che respingo, tutti questi abbracci che vedo, tutti questi amanti felici.

E odio la persona che adesso ti bacia la nuca, mentre ti accingi a l’altare, con il tuo abito di pizzo, e le calle che ti sfiorano il seno, mentre sussurri un sì e leghi la tua vita a un altro, a quello li, con il suo nome scritto in corsivo, sul quell’invito che ho lasciato nel cappotto.

Quel cappotto che indosso, e quel cartoncino che è sempre in quella tasca, quella sinistra, che sto strappando con la violenza di dita mancate d’amore, mentre sento in frantumi tutto quello che resta di me.

 

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