ANDREA, NESSUNO E CENTOMILA

di Cara Futura Rigby

ANDREA, NESSUNO E CENTOMILA

di Cara Futura Rigby

ANDREA, NESSUNO E CENTOMILA

di Cara Futura Rigby

Andrea, nessuno e centomila

Andrea è un nome di fantasia che si riferisce, però, a qualcuno di reale, a qualcuno che nella mia vita esiste davvero.

Eppure Andrea non è solo un mio amico. Andrea è quell’amico o amica che tutti abbiamo o abbiamo incontrato almeno una volta nella nostra vita. Andrea esiste, è lì fuori e nel mio caso abita a Roma Sud, o meglio “al confine tra Garbatella e la Colombo, stella, famo i precisi”.

Andrea è quell’amico che conosci da un tempo che supera il conteggio a due mani, da un tempo che i calcoli è meglio non farli. Oppure sì, i conti li fai, ma solo dopo il terzo vodka lemon, quando sul filo della malinconia di fine estate dici “Oh ma da quant’è che ci conosciamo?” e sgrani gli occhi. Poi però Andrea è quello che non resiste troppo al magone melenso e subito sente la necessità di incalzare con gli evergreen del “Oh ma te ricordi quando…?”. Andrea scava cunicoli di nostalgia, ma fa di tutto per rifuggire le leggi della memoria.

Andrea è quell’amico che tutti abbiamo e che lavora all’estero, che prende per il culo te e tutta la tua compagnia di trentenni italioti che “non hanno avuto la curiosità di provare altrove”. Andrea è quello che viaggia per lavoro e ti racconta che tutto lì è incantevole, funzionale e bellissimo. Andrea ha il conto in banca che io avrò solo se punto su una vittoria tra Nocera Inferiore e Milan.

Andrea, però, ti scrive spesso che gli manchiamo e, non appena ha tre minuti di scalo a Fiumicino, fa di tutto per starti col culo attaccato.

Andrea è quell’amico di cui tua madre si fida perché ha un lavoro prestigioso, parla le lingue, è alto, gentile, gli dà del lei e sa coniugare i verbi, a parte quando in motorino impreca, ma mia madre non lo sa. È quello che tua madre ti ci manderebbe pure a fare un safari di mine antiuomo in Sud Sudan perché “tanto c’è Andrea”. Andrea è quello che hai sempre usato come scudo di fiducia. “Mamma, vado con Andrea” e invece stavi chissà dove fuori il Raccordo, chiaramente senza Andrea.

Andrea è quello che se tua madre sapesse la verità su quella vacanza in cui oltre ad aver rischiato la vita, ha anche rischiato un processo penale, non te lo farebbe incontrare nemmeno se portasse in dono oro, incenso e mirra. Ma Andrea, si sa, è il bravo ragazzo, di brava famiglia, cresciuto in una bella casa col giardino.

Ma la bella famiglia che immagina mia madre non è quella di cui Andrea spesso mi ha narrato, a causa della quale, ancora più spesso, ha preso a pugni l’armadio di camera sua e per cui è stato male. Andrea l’hai visto digrignare i denti per alcuni fatti che un giorno ti raccontò con la voce rotta e i sospiri angosciati. Ad Andrea vuoi bene e gliene vuoi proprio perché non sai se a 30 anni lo risceglieresti come amico, ma per certo sai che ad oggi lo porterai sempre con te. Andrea è stato male, ma ti guarda come chi non vuole che tu glielo ricordi: credo siano già sufficienti i segni sopra e sotto la pelle a ricordarglielo. E allora sai che è un vostro segreto, un tacito e muto accordo di rispetto, perché i dolori, io e Andrea lo sappiamo, si fa fatica a guardarli negli occhi. I dolori non hanno nome e non hanno tempo.

Andrea è quello che quando arrivo mi saluta sempre con un “ma come cazzo sei vestita?” ed ogni volta tira fuori un’eclettica quanto vergognosa descrizione per esporre tutta la mia emarginazione esistenziale. L’altra sera, ad esempio, ha partorito un “me pari un po’ grunge, un po’ cattocomunista”, tanto per esprimere tutta la sua empatia nei miei confronti.

Andrea ti racconta e si racconta. Andrea ti chiede.

Andrea è quell’amico che non cercheresti mai nei momenti di profonda depressione, perché Andrea ha la leggerezza di un caterpillar ucraino e la dolcezza dell’acido muriatico limonato. Andrea è allergico alla sensibilità ed è meglio non chiamarlo se cerchi conforto, perché potresti entrare in un tritacarne travestita da paperella gialla ed uscirne come un McNuggets. Andrea è quello che quando gli hai confessato di aver subìto un tradimento è riuscito a proporre la sua soluzione a tutto “C’ho un amico che je po’ rigà la macchina, te va bene come vendetta?”: nessuna pacca sulla spalla, nessun “mi dispiace”, solo contrappassi e una valida e vigorosa vendetta tarantiniana ambientata a Roma Sud.

Andrea ha la lucidità di un cecchino siriano e il realismo di un uomo apro, ha il pragmatismo di un imprenditore cinese e la sintesi di un estratto conto in rosso. Una sera dice che il motivo principale del mio star male è “perché sei la solita disadattata”. Lo dice ridendo, ma ci crede. Io rido e piango allo stesso momento, perché lo so che scherza, ma in fondo ci credo pure io.

Andrea è quello che torna all’estero il giorno dopo, ti manda le foto del monumento ultrabello e ti dice che ha conosciuto la ragazza ultraesotica.

Andrea ci dice che vorrebbe tornare “ma sto paese del cazzo non me lo permette”. Andrea lo sa che, quando torna, ci siamo sempre e ci sto sempre.

Andrea in fondo lo sa che un “paese del cazzo come il nostro” lo aiuta a tenerlo lontano da quello che questa città gli ricorda. Andrea in fondo lo sa che fuggire da sé stessi è peggio che fuggire da qualcun altro. E lo ammette solo quando non è lucido, ma poi ti prega di dimenticarlo il giorno dopo.

Siamo su quello che abbiamo iniziato a chiamare “il ponte nuovo”, quello che collega Ostiense a Garbatella e gli chiedo perché secondo lui a me il Gazometro piace tantissimo, perché da sempre non posso fare a meno di staccare gli occhi da quell’immagine non appena lo vedo all’orizzonte: è di fatto solo un ammasso di ferraglia geometrica. E quindi perché?

“Ti succede perché secondo me il Gazometro a Roma Sud è tipo la Stella Polare per il mondo. Lo usi come riferimento ovunque stai. -Oh là sta il Gazometro e allora vado de qua-. Perché nella vita bisogna sempre avere un riferimento ben preciso per orientarsi.”

“Io allora c’ho il Gazometro come riferimento e tu?”

“Io ho le quattro piccole differenze tra gente buona e gente cattiva”

“E quali?”

“Lascia sta”

Poi cambia discorso e cita Pasolini sul Gazometro, ma io sto ancora pensando a quella cosa sulle differenze tra buoni e cattivi, perdoname Andrè. E sto pensando che io come riferimento ho un criterio spaziale e tu umano.

Andrea mi saluta davanti al solito parchetto con un bacio in fronte dicendomi che “tutto passa”.

Andrea è ripartito e esorcizza la nostalgia quando poi scrive “però ditemi voi che fate, do state, raccontate, me mancate!”

Ad Andrea scrissi che “stasera non sono uscita perché mi sento giù e preferisco dormire”.

“Se torno e stai ancora male, te posso prende il Prozac de mi madre, se vuoi”, è la buonanotte di Andrea. La migliore che può darmi, quella che per me e per lui ha il valore aureo su ogni altra rassicurazione, quella che per lui è l’apice di vicinanza affettiva. E’ lui, il Prozac, una promessa a graffiare una macchina per vendetta e nessuna morbidezza.

Ma è Andrea e io sono certa di volerlo sempre così. Sono certa di ricordarlo sempre così, sicura di non desiderarlo diverso, solida nel pensare che per me è il miglior Andrea che un qualsivoglia destino potesse mai pormi davanti.

Perché degli Andrea, come dei Davidi o delle Francesche o delle Paole, ne abbiamo tutti un po’ bisogno. Di quelli che sotto una cinica e ruvida ritrosia sanno mostrare tutta la loro fragile e pregevole amabilità. E se la vita non ha ancora trovato la strada per farceli conoscere, dovremmo pur trovare un modo per incontrarli.

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