Una Top 10 Cinematografica Alternativa – 2019

di Matteo Tarascio Breveglieri

Una Top 10 Cinematografica Alternativa – 2019

di Matteo Tarascio Breveglieri
Una Top 10 Cinematografica Alternativa - 2019

Una Top 10 Cinematografica Alternativa – 2019

di Matteo Tarascio Breveglieri

Un altro anno, un’altra lista pre-Oscar. Per celebrare prematuramente la vittoria di 1917 o Joker agli Oscar di stasera, vorrei parlare dei migliori film dell’anno appena concluso, di quelli che mi hanno fatto pensare di più. Ricordo che ho tenuto in considerazione solo le date d’uscita americane, per potermi più facilmente allineare all’Award Season. Il grande cambiamento rispetto agli anni scorsi è l’ascesa di Netflix: un quarto dei film di cui parlerò in Italia sono usciti esclusivamente sulla famosa piattaforma di streaming. 

Ma iniziamo con qualche menzione d’onore: il 2019 ha regalato tanti ottimi film, ed ovviamente è impossibile parlare di tutti. Se l’esclusiva Netflix Diamanti grezzi (Uncut Gems) è un distillato di ansia e caos grazie ad un montaggio frenetico e una trama che non molla per un istante, Le Mans 66 – La grande sfida (Ford v Ferrari) dà un diverso tipo di adrenalina, nella pellicola più avvincente sul mondo delle corse dai tempi di Rush. Mi hanno fatto piangere The Farewell – Una bugia buona, con la sua storia su una nonna originaria di una terra lontana che ho sentito profondamente mia, e Piccole donne (Little Women), rivisitazione del celebre romanzo che ribadisce il talento della regista Greta Gerwig. Dolemite Is My Name e Rocketman prestano entrambi omaggio a persone realmente vissute: il primo perla del genere della blaxploitation, il Rudy Ray Moore di un ringiovanito Eddie Murphy; il secondo all’eterno Elton John, con numeri musicali che sprizzavano della sua personalità, ma senza renderlo un eroe privo di difetti. Dolor y gloria è una retrospettiva sulla vita e la carriera di Pedro Almodóvar e, come Toy Story 4, tratta di una persona che cerca un nuovo scopo nella propria esistenza – ok, lo ammetto, questa era un po’ tirata per i capelli però l’ultima avventura di Woody merita. Complimenti a Terrance Malick che riesce, con La vita nascosta – Hidden Life, a creare un film poetico e mistico, senza sminuire la relazione centrale nell’opera. Infine Midsommar – Il villaggio dei dannati mi ha disturbato come pochi altri horror, grazie alla contrapposizione tra l’estrema violenza e la qualità psichedelica con cui viene mostrata.

Ma ecco i dieci film che più mi sono rimasti impressi di questo 2019: come al solito la classifica è abbastanza fluida, ma sono messi in ordine per infastidire chi, come me, si arrabbia in modo infantile quando altri preferiscono l’ultima avventura Marvel a quella della DC.

10. C’era una volta a… Hollywood (Once Upon a Time… in Hollywood) (regia di Quentin Tarantino, di Pulp Fiction tra tutti): Sappiamo che Hollywood è il penultimo film della carriera di Tarantino, dato che lui ha più volte espresso la volontà di farne dieci per poi dedicarsi esclusivamente a libri e teatro. E quindi avrò soltanto un’altra, ultima volta quella magica esperienza di andare al cinema per perdermi nella realtà leggermente alterata – più emozionante, più drammatica – in cui si ambientano un po’ tutte le sue pellicole. Ed è proprio questo feeling di stupore e ammirazione per questa forma d’arte che permea l’intero film: Quentin, ricreando la Hollywood della sua infanzia, si ritrova a fare un ode al cinema con cui è cresciuto e del quale si è animato. Questo spaccato di vita del 1969 segue un attore –  Leonardo Di Caprio – ormai ai margini del successo, la sua controfigura e miglior amico – Pitt – e la sua vicina di casa, la molto incinta Sharon Tate – Margot Robbie – prima del suo brutale omicidio. Il risultato è sia un’esaltazione al cinema che un disperato tentativo di ritornare ad un periodo più innocente, fissando nella celluloide personaggi che purtroppo solo così possono vivere per sempre. 

9. Dov’è il mio corpo? (J’ai perdu mon corps) (debutto alla regia per Jérémy Clapin): I migliori film di animazione sono quelli che giustificano a pieno l’uso di questo mezzo narrativo: portando sul grande schermo avventure che per ragioni tecniche o artistiche non avrebbe senso filmare con attori in carne ed ossa. Dov’è il mio corpo ne è un esempio lampante, trattandosi dell’avventura di una mano mozzata che cerca di riconnettersi al proprio corpo. Questa premessa apparentemente grottesca in realtà nasconde una delle pellicole più sensibili e poetiche dell’anno, mostrando parallelamente all’avventura della mano anche quella del giovane Noufel, il tutto tramite una serie di immagini collegate al senso del tatto – giustamente, essendo parte della vicenda osservato dal punto di vista della mano. Nonostante ci sia anche una storia d’amore, Dov’è il mio corpo ha i suoi momenti migliori quando mette da parte il filone narrativo e si lascia andare in splendide sequenze quasi oniriche, accoppiate alla migliore colonna sonora dell’anno. [Distribuito in Italia da Netflix.]

8. The Lighthouse  (regia di Robert Eggers, di The Witch): il secondo lungometraggio di Robert Eggers segue due custodi di un faro in una remota isola e la loro battaglia con le intemperie, l’isolamento e la noia. Il giovane Ephraim, un Robert Pattinson che ricorda per l’ennesima volta che Twilight per lui era solo un trampolino di lancio per diventare una star, nota subito però che qualcosa non quadra, e noi insieme a lui ci chiediamo quanto di quello che vediamo sia vero e quanto sia uno scherzo dovuto alla solitudine o all’alcool generosamente offerto dal suo supervisore Tom – Willem Dafoe. Il film riesce perfettamente a calarci in questa atmosfera angosciante tramite la fotografia in bianco e nero quasi quadrata (1.19:1) e una serie di suoni incessanti di onde, gabbiani, tempeste e sirene antinebbia. E tra visioni di mostri e possibili metafore di miti greci, a noi spettatori sembra di impazzire proprio come succede ai due sventurati protagonisti.

7. La rivincita delle sfigate (Booksmart) (debutto alla regia per Olivia Wilde): è impossibile parlare di Booksmartnon ho intenzione di utilizzare il terribile titolo italiano stile Se mi lasci ti cancello – senza tenere conto dell’influenza della commedia del 2007 Superbad. Dalla sua uscita, più o meno ogni film ambientato in una high school americana ha sentito la necessità di doversi distinguere in qualche modo per aggiungere un po’ di pepe alla ricetta di successo, aggiungendo genitori (Blockers), o 12enni (Good Boys) o quant’altro, senza però grandi successi. Olivia Wilde è la prima a capire che la parte fondamentale di Superbad, ciò che lo mette ben al di sopra di un American Pie a caso, non sono le situazioni assurde ed esilaranti in cui si trovano i due protagonisti, ma la loro relazione di sincera amicizia. Una volta compreso questo, Wilde dedica quasi ogni scena in Booksmart alle due protagoniste, creando una commedia con vagonate di cuore e passione, piena di scene fantasiose e visivamente sorprendenti. 

6. The Irishman (I Heard You Paint Houses) (regia di Martin Scorsese, di Quei bravi ragazzi, The Departed, The Wolf of Wall Street): The Irishman è da vedere come conclusione dell’analisi sulla mafia di Scorsese, dopo Mean Streets, Quei bravi ragazzi e Casinò. La differenza fondamentale con questi film è nello stile e nel ritmo con cui il regista affronta la tematica in quest’ultima pellicola: se le sue opere precedenti sulla mala hanno un’energia esuberante e travolgente, Irishman segue l’ormai anziano gangster Frank Sheeran con il raccoglimento ed esitazione tipici delle sue pellicole  religiose come Silence. Durante le tre ore e mezza in cui Frank confessa agli spettatori le sue malefatte Scorsese riesce ad esaminare da una parte le conseguenze della violenza nella vita personale di un uomo ormai insensibile a tutto, e dall’altra riflette sulla vecchiaia, i rimpianti e la realizzazione che la parte più importante della nostra vita ci sia nostro malgrado sfuggita dalle mani. E se tutto questo vi lasciasse indifferenti, è comunque un’incredibile ostentazione dell’abilità e del carisma di alcuni dei migliori attori di sempre, Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci. [Distribuito in Italia da Netflix.]

5. Storia di un matrimonio (Marriage Story) (regia di Noah Baumbach, di Il calamaro e la balena, Frances Ha, The Meyerowitz Stories): Nella scena iniziale di Storia di un matrimonio sentiamo i due protagonisti, intepretati da Adam Driver e Scarlett Johansson, parlare di quello che amano l’uno dell’altra: tutta una serie di piccoli dettagli che rendono una relazione vera e vissuta e che ci aiutano a conoscerli. Ma c’è un piccolo colpo di scena: i due stanno in realtà leggendo una lettera scritta durante un esercizio parte della mediazione che precede il loro imminente divorzio. Noi vediamo tutte le cose apparentemente insignificanti che non vanno tra i due, fino all’esplosione finale, al litigio in cui si dicono cose di cui poi ci si pente, e che cambia tutto. Baumbach attinge alla propria esperienza personale con l’attrice Jennifer Jason Leigh per creare una storia sentita e genuina in cui non abbiamo un cattivo da odiare, ma solo persone che fanno errori umani e cercano di fare del proprio meglio. Fenomenali le interpretazioni di entrambe le star principali – se non fosse che l’Academy dovrà dare la statuetta a Joaquin Phoenix dopo averlo ignorato così a lungo, Driver sarebbe un vincitore quasi assicurato. [Distribuito in Italia da Netflix.]

4. Cena con delitto – Knives Out (regia di Rian Johnson, di Looper, Star Wars: Gli ultimi Jedi, i migliori episodi di Breaking Bad): L’ultima impresa di Rian Johnson è una lettera d’amore ai romanzi di Agatha Christie, a personaggi come il tenente Colombo e al genere del giallo in generale. Il detective privato Benoit Blanc – un Daniel Craig che sembra non essersi mai divertito così tanto – viene chiamato per investigare l’omicidio di un famoso scrittore di romanzi gialli *wink wink*. In presenza di una famiglia – e quindi di un cast –  enorme, può fidarsi ciecamente solo dell’infermiera del defunto, Marta – Ana de Armas. Lei infatti non può mentire senza vomitare.  La trama si evolve in modo inaspettato, come una ventata d’aria fresca in un genere ormai consolidato, riuscendo anche a parlare di tematiche sociali attuali, il tutto con una satira tagliente. Ovviamente tutto questo sarebbe inutile se il mistero centrale fosse banale ma, come i migliori racconti di Poirot o del tenente Colombo, lascia col fiato sospeso fino alla fine. Knives Out forse non sarà il film migliore dell’anno – la discussione se sia possibile considerare un’opera d’arte “migliore” in senso stretto di un’altra lasciamola a critici veri – ma è molto probabile che sarà quello che riguarderò più spesso tra quelli usciti nel 2019. 

3. Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu) (regia di Céline Sciamma, di Tomboy, Diamante Nero, Naissance des pieuvres): Isola al largo della Bretagna, fine diciottesimo secolo. Una pittrice, Marianne, viene scritturata per ritrarre una giovane rampolla di famiglia nobile decaduta, Héloïse, cosicché la madre possa mandare il dipinto ad un ricco milanese che vorrebbe sposarla. Non è la prima volta che questo accade: avendo capito che essere ritratta significa essere costretta a sposarsi, e quindi perdere la propria indipendenza, Héloïse si era rifiutata di posare per il ritratto. Marianne dovrà quindi fingere di essere una dama di compagnia e osservare attentamente la sua protetta per poter poi completare il lavoro di nascosto. Questa premessa consente a Sciamma di far vivere agli spettatori il lavoro di Marianne: la cinepresa si sofferma con attenzione e quasi timidezza sulla figura di Héloïse, e lo sfondo naturale del mare mosso bretone riflette il tumulto interno alle due ragazze. La musica, usata sporadicamente, è centro focale delle due scene migliori di questa pellicola; in particolare, l’uso dell’Estate di Vivaldi è eccezionale. Penso di non aver respirato durante gli ultimi 10 minuti.

2. Parasite (Gisaengchung) (regia di Bong Joon-ho, di Memories of Murder, Mother, Okja): Descrivere ciò che rende Parasite uno dei migliori film dell’anno è molto compicato. Bong Joon-ho crea, come suo solito, un’opera che difficilmente si può definire con un genere preciso: è un misto di commedia nera, thriller, e dramma familiare. Parla di due famiglie: i Kim, che stentano ad arrivare a fine mese, decidono di insinuarsi nella vita dei ben più ricchi Park, in particolare nella loro lussuosa casa, emblema del loro status sociale. Questo intrigante studio sulle differenze di classe è sorretto da interpretazioni memorabili – Song Kang-Ho tra tutti si riconferma un talento di prima classe – da una sceneggiatura geniale e imprevedibile e da una fotografia di prima classe. Di più non serve sapere prima della visione. Se non l’avete visto, andatelo a vedere. Se l’avete già visto, guardatelo di nuovo. Così possiamo rosicare tutti insieme quando stasera non vincerà Miglior Film.

[Sembra che la contro gufata del nostro Matteo abbia funzionato, dato che Parasite è diventato il primo in lingua non inglese a vincere Miglior Film agli Oscar.]

1. Ad Astra (regia di James Gray, di Civiltà perduta, C’era una volta a New York, Two Lovers): Il viaggio come metafora per la crescita di un personaggio è un tema esplorato spesso nell’arte, da quello di Ulisse ad Apocalypse Now, gli esempi si sprecano. Ad Astra usa la storia dell’astronauta Roy McBride – Brad Pitt nel ruolo più sensibile e misurato della sua carriera – per parlare di come il viaggio possa essere una fuga da se stessi: quando a Roy viene affidata una missione che lo porterà ai confini del sistema solare, ne approfitta per poter scappare dai suoi problemi (apparentemente) terreni e per chiudersi in sé sempre di più. È un viaggio personale ed introspettivo, camuffato da pseudo-blockbuster. È una pellicola, come la vita di Roy, pervasa da grande solitudine, con lunghi silenzi e contemplazioni sull’incapacità di comunicare i propri sentimenti, sull’inevitabilità di seguire le orme di nostro padre, sulla ricerca di un Dio assente. Ad Astra è lento, è difficile, è quasi soffocante, ma allo stesso tempo può dare tantissimi spunti ed emozioni a chi decide di avere pazienza ed ascoltare ciò che il film cerca di dire.

di Matteo Tarascio Breveglieri, all rights reserved

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