Afghanistan. Lo scorso 12 ottobre la nostra capitale ha avuto l’onore di ospitare la seduta straordinaria del G20 dedicata alla questione afghana. Il desiderio del Presidente del Consiglio Draghi di mantenere viva la discussione su questo tema ha incontrato il favore della comunità internazionale, la quale – come ha efficacemente sintetizzato l’ambasciatore Marco Marsili – “potrebbe risentire di una certa rassegnazione al fatto compiuto”.
Lo stesso premier Draghi si è detto soddisfatto dei risultati conseguiti durante la giornata di discussioni, considerando un successo il fatto che così tanti Stati abbiano deciso di preferire un approccio multilaterale.
Tuttavia, non tutti i principali attori coinvolti nello scenario afghano hanno dimostrato di preferire questa soluzione: i due grandi assenti – il Presidente russo Putin ed il suo omologo cinese Xi Jinping – continuano a rimanere affezionati alla soluzione bilaterale, considerando anche la grande sfiducia che entrambe le Nazioni nutrono per un foro come il G20, considerato come eccessivamente subordinato alle influenze statunitense ed europea.
Nonostante questa nota negativa, l’incontro è stato foriero di alcuni risultati non indifferenti, come ad esempio lo stanziamento da parte di Usa ed Ue di una somma di 1 miliardo e 300 milioni di dollari da destinare a favore dell’Afghanistan e dei paesi limitrofi, della cui distribuzione si occuperanno istituzioni finanziarie quali la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
Al di là di questi apparenti successi, sarebbe fuori luogo ritenere questa sessione straordinaria la piattaforma da cui giungere ad una concreta soluzione della crisi afghana. Al contrario, molti nodi importanti rimangono ancora da sciogliere, primo fra tutti la questione dei profughi afghani, mentre il paese asiatico sta lentamente sprofondando nel caos.
Il passaggio dei talebani da movimento armato a compagine statale è stato coronato dal fallimento più totale, soprattutto a causa dell’impossibilità di ricorrere ai 10 miliardi di dollari posseduti dalla Banca centrale afghana su conti correnti esteri, i quali sono stati congelati.
Questo ha comportato il pressocché totale collasso dell’amministrazione statale, i cui impiegati sono ormai da mesi senza stipendio.
Questa gravissima situazione, unita all’inflazione galoppante ed alla mancanza di quelle risorse prima fornite dalla Coalizione internazionale ha riverberato molto rapidamente i suoi effetti sulle condizioni di vita della popolazione sia urbana che rurale, cosa che sta facendo temere le organizzazioni internazionali per la sopravvivenza di larghe fasce della popolazione: attualmente ben il 72 % della popolazione si trova sotto la soglia di povertà, ma qualora la situazione non dovesse migliorare l’ONU prevede che nei prossimi mesi addirittura il 97% dei circa 38 milioni di afghani potrebbe scendere al di sotto di tale soglia.
Tutto ciò mentre il rigido inverno degli altopiani afghani è ormai alle porte.

©EPA/MASSIMO PERCOSSI / POOL
Volendo tralasciare la disastrosa situazione economica, neppure dal punto di vista della situazione politica le cose stanno procedendo per il verso giusto. Il neonato governo di Kabul, presentato ufficialmente lo scorso 7 settembre, non sembra in grado di affermare saldamente la sua leadership all’interno della comunità talebana, la quale sembra sempre più spaccata al suo interno da divisioni e faziosità, anche di carattere etnico.
In particolare, sembra delinearsi in maniera sempre più preoccupante la minaccia del gruppo IS-KP (Islamic State – Khorasan Province), il quale sta da tempo estendendo la propria influenza sul territorio circostante la città di Jalalabad, conducendo attacchi di alto profilo contro obiettivi sensibili sia civili che istituzionali (pensiamo ad esempio all’attacco all’aeroporto di Kabul del 30 agosto, oppure alla strage del 15 novembre alla moschea sciita di Kandahar).
Oltre all’IS-K, anche comunità come quella uzbeka e tagika incominciano a mostrare segni di insofferenza. Ultimi, ma non meno importanti, gli sciiti della regione dell’Hazarajat, in merito ai quali non è ben chiaro quale possa essere il grado di influenza esercitabile dall’Iran.
Ormai privi di un nemico comune da combattere, le varie compagini dello schieramento talebano sembrano incapaci di superare le divisioni etniche e culturali che da sempre dividono un paese così complesso, facendo temere gli osservatori circa la possibilità di un ritorno al clima di violenza settaria che aveva caratterizzato la guerra civile degli anni ’90, dilagata nel Paese subito dopo il ritiro delle truppe sovietiche.
In aggiunta alle preoccupazioni settarie cui abbiamo appena accennato, bisogna segnalare la presenza ancora viva di un movimento di resistenza anti-talebano deciso a non concedere nessun margine di dialogo alla nuova leadership fondamentalista. Nel corso del mese di settembre le forze della cosiddetta “Alleanza del Nord”, che aveva raccolto brandelli dello sbandato esercito afghano più un certo numero di volontari ostili al regime talebano, aveva costituito un estremo bastione difensivo nella valle del Panjshir.
Ahmad Massoud, figlio del ben più celebre “Leone del Panjshir”, che tanto filo da torcere diede agli invasori sovietici e che venne assassinato proprio dai talebani nel settembre del 2001, ha costituito il polo attorno a cui si sono raccolti gli ultimi irriducibili del Panjshir.
Le eccellenti condizioni geografiche della valle hanno permesso all’Alleanza di resistere per settimane all’avanzata delle forze talebane, le quali tuttavia potevano contare – oltre che su un notevole vantaggio numerico – su buona parte dell’equipaggiamento militare caduto nelle loro mani in seguito al tracollo dell’esercito afghano. Pur riuscendo a strappare ai ribelli il basso corso della valle, le milizie talebane pare non siano riuscite ad ottenere un totale controllo delle zone montuose, elemento che lascia presagire una lunga guerra di logoramento.
Tutte queste incognite non fanno altro che peggiorare la situazione del governo di Kabul anche a livello internazionale, dove ancora nessuno Stato ha osato procedere al formale riconoscimento di una leadership politica che ogni giorno di più sembra non voler rispettare gli impegni presi con la comunità internazionale. Fra i tanti attori coinvolti nella regione, questa situazione di ambiguità ed incertezza sembra mettere parecchio in difficoltà la Cina, fra i primi Stati a prendere contatti semi-ufficiali con esponenti della dirigenza talebana – vedasi l’incontro ministro degli Esteri Wang Yi ed il Mullah Baradar a Tianjin durante lo scorso mese di luglio.
Interesse della Cina sarebbe quello di poter interloquire con un governo afghano forte, in grado quindi di evitare che il paese possa diventare l’epicentro di una instabilità regionale che tanti danni causerebbe ai progetti economici cinesi nell’area (in primis la realizzazione della Belt and Road Initiative).
In particolare, sebbene la Cina sia riuscita a strappare ai talebani l’impegno a non collaborare con le forze islamiste uigure che conducono attacchi contro lo Xinjiang cinese da oltre confine, l’apparente incapacità di Kabul di garantire un effettivo controllo del territorio sembra rimettere tutto in discussione. In ogni caso, scartata la possibilità di condurre un intervento militare in piena regola, la collaborazione con i talebani, per quanto difficile ed incerta, sembra l’unica strada percorribile dalla colosso cinese per perseguire i propri interessi strategici nell’area.